Una battaglia di Sinistra: riscrivere l’art. 81

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La provocazione “gialloverde” insita nell’ormai celebre rapporto deficit-PIL al 2,4% è stata prontamente raccolta da attori esterni e interni: fra questi ultimi annoveriamo forze politiche liberiste e globaliste (PD, FI ecc.[1]), media ultraeuropeisti e commentatori più o meno schiacciati sulla vulgata sistemica. Tra gli opinionisti sono in parecchi a essere andati fuori tema: c’è chi si straccia le vesti per l’immancabile fascismo ad portas[2] e chi ripete stancamente le usuali giaculatorie sul debito pubblico – ma dalla cacofonia di voci emergono taluni che, più originali, si baloccano con critiche nuove e suadenti. Sta acquisendo credito la seguente posizione: indipendentemente dai suoi contenuti, la manovra in fieri sarebbe incostituzionale perché lesiva dell’articolo 81 Cost. versione 2012, e di conseguenza il Quirinale dovrebbe bocciarla.

Cosa dispone la norma citata? Che “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.” Attenzione: qui non si parla di formale «pareggio» fra entrate e uscite, bensì di equilibrio – vale a dire della necessità che le spese siano finanziate con risorse per così dire buone e comunque proprie, come quelle derivanti dal patrimonio pubblico o il gettito tributario. Il 2° comma difatti precisa che “Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”, mentre il 6° demanda a una legge rafforzata la fissazione di “contenuto della legge di bilancio (…) criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito”. Questa legge, celermente approvata a fine 2012, è la n. 243[3], che all’articolo 3 descrive l’equilibrio dei bilanci come un «obiettivo di medio termine», da perseguire tenendo conto di particolari circostanze quali recessioni economiche, crisi ed eventi eccezionali. Una normativa interpretabile, che qualcuno vorrebbe scolpita nella pietra…

Invero le obiezioni degli “ottantunisti” non mi paiono risolutive, anche se potrebbero rafforzare la determinazione dell’attuale Presidente della Repubblica, già tutt’altro che sordo al grido di dolore e stizza che si leva dagli uffici di Bruxelles.

Da un lato, opino, l’argomentazione “prova troppo”: bastasse uno scostamento, magari lieve, dai principi della Carta per impedire la promulgazione di una legge mai sarebbero entrate in vigore ad es. le normative che, in nome di presunte razionalizzazioni, accorpano distretti sanitari e chiudono ospedali (poiché lesive del diritto alla salute) oppure quelle che riducono le aliquote fiscali abbassando le più elevate (lesione del principio di progressività). Potremmo proseguire a oltranza: incostituzionale il Jobs act e qualsiasi altra disciplina che impoverisca le tutele giuslavoristiche, idem per blocchi anche una tantum di stipendi e pensioni (artt. 36 e 38) ecc. Questo senza contare che l’articolo 74 non riconosce al Presidente della Repubblica alcun potere di interdizione: se nutre dei dubbi sulla costituzionalità di un atto normativo può soltanto “con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione”; quanto ai disegni di legge di iniziativa governativa, l’articolo 87 stabilisce che egli ne “autorizza la presentazione alle Camere”. Va ribadito con nettezza: il Presidente non è un semplice verbalizzante di statuizioni altrui, ma nemmeno un decisore politico di ultima istanza legittimato a entrare nel merito delle strategie governative e/o delle scelte parlamentari. Un suo diritto-dovere di intervento potrebbe configurarsi solo a fronte di provvedimenti abnormi, quali un decreto che ripristinasse ufficialmente la schiavitù oppure una legge che esentasse expressis verbis i ceti più ricchi dal pagamento delle imposte – ho adoperato intenzionalmente esempi paradossali proprio per dimostrare l’assurdità di certi ragionamenti in punta di diritto. La bocciatura che taluni invocano non è quindi contemplata; essa spetta casomai – ma a posteriori – alla Corte Costituzionale. Infine, una percentuale rispettosa dei famigerati parametri di Maastricht (deficit massimo al 3%) non contraddice, a parer mio, la lettera dell’articolo 81, 2° co., se il fine è quello di “considerare gli effetti del ciclo economico”: effetti ben documentabili in un Paese che ha visto crescere a dismisura, dal 2008, il numero delle famiglie in stato di povertà. Si badi che nell’evenienza descritta il ricorso all’indebitamento è permesso anche senza la previa autorizzazione parlamentare a maggioranza assoluta richiesta per far fronte ad “eventi eccezionali” come terremoti e altre catastrofi d’origine perlopiù naturale[4].

Insomma: chi anela ad aprire un nuovo fronte interno è ben provvisto di munizioni ideologiche, ma quelle giuridiche le ha perse per strada. Queste mie considerazioni non devono indurre il lettore a sottovalutare la nocività dell’articolo 81 montiano: non è una tigre di carta, al contrario. La puntuale riforma del 2012, che ha toccato anche altri articoli (97, 117 e 119), ha stravolto la nostra Costituzione, innestando al suo interno una “regola aurea” che contraddice quelle stabilite dall’Assemblea Costituente. La Repubblica non è più al servizio dei cittadini, nominalmente sovrani, bensì dell’interesse economico, dei mercati e della tecnocrazia UE: illustri cattedratici esaltano addirittura il nuovo corso, affermando senza vergogna che la politica deve sottostare alla volontà dei mercati, perché i “mercati (…) sono costituiti da quello stesso Popolo che dà un giudizio sulla condotta dei governi. È così che vengono governati oggi tutti gli Stati moderni[5].” Sorge il sospetto che per chi esprime un siffatto giudizio l’appartenenza di un individuo al Popolo sia condizionata al possesso (perlomeno) di qualche milione di euro in titoli, ma il punto non è neppure questo: nell’immaginario collettivo, plasmato da una quotidiana narrazione a senso unico, l’articolo 81 ha ormai soppiantato l’articolo 1 (e quelli successivi) come fulcro dell’ordinamento giuridico italiano. Il passaggio di sovranità dal Popolo ai finanzieri è dato per avvenuto, all’occorrenza preteso dall’establishment e dai suoi funzionari e/o servitori, nei quali le mosse avventurose dell’attuale governo italiano hanno suscitato (azzardo) sincera riprovazione, il medesimo sdegno frammisto a sorpresa che un altezzoso gentiluomo può provare dinanzi alle intemperanze di un domestico.

La ferma e insieme sguaiata contrarietà della Commissione UE alla manovra gialloverde nulla ha a che vedere con la tenuta dei conti pubblici: è una presa di posizione politico-ideologica che, piuttosto che a un giudizio tecnico, rassomiglia a una scomunica papale. La religione euroliberista impone autodafé e sacrifici umani di massa: l’affermazione secondo cui “l’equilibrio di bilancio non è astratto rigore” è senz’altro condivisibile, perché quel rigore è al contrario assai concreto – e foriero di conseguenze pestilenziali, come provano la desertificazione socio-economica della Grecia e la crescita esponenziale, da noi, del numero di poveri assoluti e relativi, che sommata allo smantellamento dei servizi pubblici sta sprofondando l’Italia in una situazione ottocentesca. La metafora del divano, cara a berlusconiani e piddini, è ingiuriosa nei confronti di disoccupati involontari e precari sottopagati, ma esprime alla perfezione il disprezzo provato da politici e membri dell’establishment verso gli indigenti, irrimediabilmente esclusi dal “Popolo” dei mercati caro al professor Cassese.

Per i chierici del regime l’annuncio del rapporto deficit/PIL al 2,4% è risuonato come una bestemmia in chiesa – uno sfogo liberatorio, cui deve però far seguito un più efficace atto di ribellione (altrimenti resterà lettera morta).

Si tratta, in sostanza, di strappare al nemico la sua bandiera, cioè quell’articolo 81 che ha costituzionalizzato l’austerità e l’asservimento della politica agli interessi (classisti) delle lobby sovranazionali. Il testo vigente fu dettato sei anni orsono a un Parlamento che, dimentico della propria dignità istituzionale, lo votò pressoché unanime: se la pressione esterna non mancò fu comunque vis grata puellis, vista la prontezza con cui deputati e senatori assicurarono il loro sì alla “riforma”, negando ai cittadini la possibilità di pronunciarsi sulla questione.

Se davvero si ha l’intenzione di riaffermare la sovranità popolare tocca allineare le azioni alle parole, cancellando una formula che è insieme professione di fede e ostacolo pressoché insormontabile all’attuazione del dettato costituzionale.

Le alternative sono due: ripristinare il testo originario, in fondo innocuo, oppure procedere a una sua riscrittura, aggiungendovi un preciso richiamo alla Parte Prima della Carta Costituzionale. La seconda opzione è preferibile, a non solo per motivi di “marketing politico” (il nuovo attrae più dell’usato sicuro, e questo vale per il cittadino-elettore non meno che per l’acquirente di un prodotto). Una formulazione che subordinasse la facoltà per Stato e amministrazioni pubbliche di indebitarsi alla dimostrata esigenza di garantire ai cittadini il pieno esercizio di diritti (quelli alla salute, all’istruzione, al lavoro ecc.) espressamente riconosciuti come fondamentali e meritevoli della massima tutela “indipendentemente dalle fluttuazioni dell’economia e dei mercati” avrebbe un doppio impatto positivo: in primo luogo ci libererebbe una volta per sempre dell’abominevole mutante giurisprudenziale denominato “diritti finanziariamente condizionati”, che impadronitosi della scena ancor prima del deflagrare della crisi economica ha inferto un durissimo colpo allo Stato sociale, riducendolo nei fatti a ipotesi di scuola. Non solo: essa fornirebbe una solida base alla teoria (timidamente elaborata dalla Consulta) dei c.d. controlimiti, capaci di imporsi anche su fonti che – alludo a quelle UE – si sono fatte largo pian piano finendo per essere percepite come “sovraordinate” rispetto alle leggi statali e alla Carta stessa. Il problema dei (contro)limiti invalicabili è che sono pochi, generici e vaghi: un richiamo esplicito alla totalità dei diritti sanciti dalla Parte Prima della Costituzione risolverebbe la questione interpretativa e insieme ne amplierebbe il novero, restituendo alla nostra Grundnorm forza e dignità smarrite. Andrebbe espunta dall’articolato anche l’insidiosa distinzione tra spese d’investimento – esaltate dai bravi economisti ed anche dagli impresari, specie laddove assicurano lauti profitti per opere tanto gigantesche quanto inutili, se non dannose – e vituperatissime spese correnti: prestare ai cittadini cure adeguate e restituire efficienza agli ospedali è un preciso compito dello Stato, che ove necessario ben potrà (rectius: dovrà) far ricorso al debito; proseguire all’infinito i lavori della TAV o spendere soldi per realizzare (senza essere la Cina!) ponti faraonici mentre il Paese si frantuma è al contrario sintomo di insipienza politica, o di qualcosa di peggio. L’opportunità di una spesa non deriva dalla sua inclusione in questa o quella categoria contabile, ma dalle ragioni che la determinano e dalle concrete finalità che mediante l’esborso vengono perseguite.

Una “controriforma” dell’articolo 81 sarebbe ben più di un segnale rivolto alla cupola finanziaria europea e globale: equivarrebbe a un effettivo cambiamento di rotta, a una rivoluzione pacifica ma copernicana (l’aggettivo è abusato da giuristi privi di fantasia, ma nell’evenienza descritta non stonerebbe affatto!).

Risulta prospettabile uno scenario come quello testé delineato? Fino a ieri l’avrei considerato fantapolitica, ma l’avvento di una maggioranza euroscettica lo rende un poco meno improbabile. I programmi di governo sono del tutto irrealizzabili con vincoli di bilancio troppo stretti e i sondaggi ci avvertono che, per la prima volta dalla sua fondazione, l’Unione Europea è invisa alla maggioranza degli italiani (il 56% sarebbe favorevole a uscirne). M5S e Lega, da soli, avrebbero le forze per far passare in Parlamento una riforma costituzionale: la quasi certa impossibilità di raggiungere la maggioranza qualificata dei 2/3 (art. 138, 3° co.) sarebbe più un vantaggio che un reale impedimento, perché affiderebbe la decisione definitiva all’elettorato, segnando (in caso di approvazione) una trionfale rivincita di quel “populismo” che i lodatori del totalitarismo neoliberista mettono quotidianamente alla berlina.

Chiaramente (e del tutto a ragione) UE e mercanti interpreterebbero la mossa in questione come una dichiarazione di guerra, e reagirebbero di conseguenza – potrebbe essere dunque il timore di uno scontro impari a frenare gli impeti dei sovranisti di casa nostra, ammesso e non concesso che credano veramente in ciò che sbandierano.

A chi spetta allora assumere l’iniziativa? La risposta è per me scontata: a quella sinistra, minoritaria ma coerente, che mai si è lasciata abbindolare dalle sirene europeiste e che, soprattutto, invoca un’alternativa di sistema, una società a misura di cittadino e non di produttore, finanziere e consumatore – in parole povere: una società socialista, che giammai si potrà edificare finché resteranno vigenti le regole dettate dal Capitale. Il primo, necessario passo verso l’instaurazione di un Socialismo realmente democratico è la liberazione della Carta Costituzionale dalle catene che le sono state imposte – perciò, e non per demagogia od opportunismo[1], dovremmo e dovremo sfidare la maggioranza gialloverde a intervenire sull’articolo 81, riscrivendolo.

Saranno disposti a farlo? Benissimo: significherebbe che sono in buona fede e assai migliori di come vengono dipinti (oltre che delle schiere di politicanti di servizio che li hanno preceduti negli ultimi venticinque anni). Si tireranno indietro? Possibile, forse probabile – ma a quel punto avremo svelato alla cittadinanza la loro inaffidabilità, e potremo proporci in maniera credibile alla guida di un Paese che ha tutti i mezzi non soltanto per ripartire, ma per garantire a ognuno diritti, lavoro, benessere e dignità.

Andare a caccia di spettri neri o bruni – me ne rendo conto – è meno faticoso che confrontarsi con la realtà e i compiti che essa propone, ma a lungo andare inevitabilmente conduce ad assumere la consistenza etera dei propri avversari di comodo.

 

[1] Ma anche i rossoliberisti con l’ossessione della minaccia nazifascista e una velata simpatia per la UE “minore dei mali” reclamano giustamente un posto alla tavola “democratica”…

[2] Il Piccolo di Trieste ha dedicato lunedì scorso ben due pagine (la seconda e la terza!) agli “orchi” di CasaPound, facendo loro ottima pubblicità gratis et amore!

[3] http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Selezione_normativa/L-/L24-12-2012.pdf

[4] Ma pure una crisi finanziaria come quella del 2009, capace di sconvolgere e squilibrare intere società, merita di essere reputata un “evento eccezionale”.

[5] https://www.rinascitaitaliasocialista.it/blog/prof-sabino-cassese-bocciato/

(6) Al pari di molti compagni avveduti ho sempre sostenuto questa posizione “controcorrente”: nell’estate 2016 testualmente scrissi: «Il tentativo di passare da un profilo altissimo ad uno convenientemente basso non andrebbe naturalmente assecondato: l’opposizione al sistema (e non semplicemente ad una pessima riforma) avrà il compito, nei pochi mesi che rimangono, di alzare la posta, trasformando il ridotto difensivo approntato da valenti giuristi in una base avanzata da cui far scattare una controffensiva. L’attenzione va spostata dalla Seconda alla Prima parte della Carta Fondamentale, persuadendo gli italiani che i tempi sono maturi per una sua completa attuazione ed evidenziando come le tutele e i diritti da essa sanciti siano messi a repentaglio o risultino illegittimamente già “affievoliti” dall’appartenenza ad un ordinamento oligarchico qual è quello dell’Unione Europea, la cui postulata “riformabilità” è negata in radice dal fatto che la UE persegue alla lettera gli scopi per cui è stata edificata (garantire il predominio degli interessi del grandi gruppi economico-finanziari) e ad essi appaiono funzionali tanto i meccanismi quanto la struttura interna. (…)  la presa di coscienza della reale natura di un regime che truffaldinamente si spaccia per “democratico”, una volta tradottasi in una vittoria del NO al referendum (o in una durevole mobilitazione in caso di suo rinvio e/o spacchettamento), costituirebbe appena il prodromo di quella rivoluzione democratica il cui approdo non potrebbe che essere una società socialista nei contenuti, se non nel nome.» (tratto da L’ultima Carta contro la barbarie, 2016)

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