Considerazioni dalla parte dei vinti

Educare al valore della sconfitta, in queste nostre paginette ne abbiamo parlato spesso. Sull’amarezza della sconfitta di “un’intera generazione” e le residue speranze di liberarsi “in nome di generazioni di vinti” – per citare Walter Benjamin – ragiona questo lungo articolo di Antonio Castronovi, sindacalista della Cgil romana per una vita intera. “Noi che ci siamo battuti per il Progresso, abbiamo identificato il “gigantismo” con la “modernità” e considerato il “piccolo” come sinonimo di arretratezza. Abbiamo sostenuto la grande impresa agricola e industriale rispetto alla proprietà e alla civiltà contadina, alle piccole imprese e  all’artigianato; le grandi opere rispetto alle piccole; le grandi banche d’affari a svantaggio delle banche territoriali; i mega-centri commerciali che costellano le nostre periferie urbane rispetto alla rete diffusa dei  piccoli negozi di vicinato…”. E’ una disanima impietosa d’una miopia nefasta e di una sconfitta senza appelli, quella di Castronovi. Una rilettura dolorosa quanto limpida di una cultura del lavoro molto marxista e assai poco attenta a Marx. Una lettura utile, non solo perché viene fatta con rigore da chi non ha mai pensato di arrendersi né di saltare sul carro dei vincitori (pratica comune a diversi esponenti di spicco della “generazione” di cui si parla), ma perché recupera un fattore essenziale quanto dimenticato nella cultura e nella memoria di una parte di quei vinti di ieri: il coraggio e la capacità di fare autocritica, un patrimonio originale e prezioso di quella stessa generazione gettato poi allegramente alle ortiche
Ilva: immagine simbolo del flash mob 'Passeggini vuoti' che il 9 aprile terrà a Taranto il gruppo 'Genitori tarantini' (foto collaboratore Giacomo Rizzo - 25 marzo 2016)

Ilva: immagine simbolo del flash mob ‘Passeggini vuoti’ Taranto il gruppo ‘Genitori tarantini’. Foto Giacomo Rizzo.

di Antonio Castronovi

Ai vinti

Mi capita spesso di ripensare agli ideali della mia gioventù che sul finire degli anni ’60 animarono le passioni politiche e civili di una intera generazione. Passioni calde che infiammarono le piazze d’Italia  e le grandi fabbriche della giovane classe operaia del Nord, in prevalenza meridionale emigrata a Milano e Torino, attratta dalla prospettiva di vincere la grande corsa infinita verso il progresso e il benessere. Dopo, nulla è stato come prima. Il mondo è cambiato davvero ma non nel senso da tanti di noi auspicato. È tramontata definitivamente la civiltà contadina, hanno vinto l’industrialismo prima e la finanziarizzazione e deindustrializzazione dell’economia poi. I valori del consumismo, dell’individualismo, dell’egoismo sociale, della competitività hanno trionfato su quelli della democrazia del lavoro, dell’uguaglianza e della solidarietà sociale, relegati nella pattumiera della storia.

Vincitori e vinti

Che fine hanno fatto i  protagonisti di quella stagione? Ci sono quelli saliti sui carri dei vincitori e quelli rimasti fedeli e  coerenti a quegli ideali di gioventù.  I primi li ascoltiamo ancora quotidianamente dalle nostre TV nelle vesti di opinionisti e di politici. Dei secondi non parla nessuno, emarginati nella sconfitta e nella memoria collettiva. Sono quelli che non si sono mai arresi e che il mondo hanno provato a cambiarlo davvero mettendosi in gioco anche dentro le organizzazioni politiche e sociali in cui hanno militato. L’onda omologante ha livellato le increspature nel tessuto della storia sollevate dalle ansie e dai moti di rivoluzione sociale che avevano animato le grandi attese di cambiamento di quegli anni. Ha vinto e si è confermato il “trasformismo” italiano. La purezza e l’ingenuità rivoluzionarie che avevano animato la nostra generazione e quella dei nostri nonni che promossero l’organizzazione e le prime  lotte dei movimenti dei lavoratori all’inizio del ventesimo secolo – e che avevano generato figure e personaggi straordinari e generosi come Angelo Antonicelli, contadino “sovversivo” senza-terra  di Massafra, il mio paese d’origine – sono state sostituite dai valori opportunistici e omologanti dei vincitori assunti a modello. Il paese oggi si è assuefatto  ai valori dell’individualismo proprietario e dell’egoismo sociale che hanno distrutto  gli antichi legami comunitari della società contadina e della prime leghe operaie. Siamo una generazione di sconfitti.

Ho fatto il sindacalista della Cgil  a Roma per una vita  intera. Ho toccato con mano le ingiustizie sociali e le sofferenze umane. Ho condiviso la disperazione di chi perde un lavoro vitale per un licenziamento ingiusto, ho conosciuto la generosità e la solidarietà operaia. Ho visto  in faccia la viltà del potere verso i più deboli e i più umili  insieme alla paura  e all’angoscia  della sconfitta. Ho conosciuto sindacalisti generosi e instancabili nella loro quotidiana opera di organizzatori e di difensori dei diritti dei lavoratori: ma ne  ho conosciuti  anche di profittatori, di furbetti e opportunisti, per non dire di disonesti. Mi sono sempre illuso che l’impegno quotidiano e la  passione  politica e civica  che mi  hanno  guidato nella mia attività,  fosse inserito in  un processo storico  di liberazione e  di emancipazione del mondo del lavoro. Eravamo certi, allora, che il vento della Storia soffiasse forte alla nostre spalle.

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Anch’io  pensavo che lo sviluppo industriale  era la via anche per il riscatto del Sud  e della mia terra d’origine. Oggi il Sud è purtroppo  diventato la discarica di rifiuti inquinanti controllati dalle varie mafie, dopo aver subito  le devastazioni provocate alla sua storia e alle sue bellezze naturali dalle servitù industriali  delle produzioni chimiche e siderurgiche più inquinanti.

“Noi” che ci siamo battuti per il Progresso, abbiamo identificato il “gigantismo” con la “modernità”  e considerato il “piccolo” come sinonimo di arretratezza. Abbiamo così sostenuto la grande impresa agricola e industriale  rispetto alla proprietà e alla civiltà contadina, alle piccole imprese e  all’artigianato; le grandi opere rispetto alle piccole; le grandi banche d’affari a svantaggio delle banche territoriali; i mega-centri commerciali che costellano le nostre  periferie urbane rispetto alla rete diffusa dei  piccoli negozi di vicinato.  Abbiamo privilegiato la metropoli rispetto ai piccoli centri, la città rispetto alla campagna e alla bellezza dei luoghi, e abbiamo contribuito allo spopolamento dei borghi e delle zone interne, oggi devastate dall’incuria umana e dalla forza oscura della natura. Abbiamo assunto la crescita come metro di misura del progresso e il “consumismo” è diventato un’ideologia, sinonimo di benessere, ed invece era una droga di cui oggi avvertiamo i sintomi della dipendenza: è un moto compulsivo, automatico, non possiamo farne a meno neanche in epoca di austerità come la nostra.

Perché da ex-sindacalista  dico queste cose oggi? Perché sono un pentito dello sviluppo e del progresso? Perché sono  “antimoderno” e “nostalgico” del passato”? Penso semplicemente che l’uomo per  ritrovare la sua innocenza deve purificarsi degli errori  che hanno generato gli orrori del  nostro presente. Penso al  passato come ad una forza potente  che può irrompere nel presente e scuotere la terra e l’ordine ivi esistente.

In  Ideologia e Poetica (Per Per il cinema, a cura di WSiti e FZabagli, 1973 – Mondadori, Milano) Pasolini affermava: “Preferisco muovermi nel passato proprio perché ritengo il passato unica forza contestatrice del presente. Non c’è niente che possa far crollare il presente come il passato: è una forma aberrante ma tutti i valori che sono stati i valori in cui ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati negativi, sono quelli che possono mettere in crisi il presente”. Solo i vinti hanno interesse a rievocare le immagini degli sconfitti delle epoche storiche precedenti, mentre i vincitori, detentori del potere, rievocano soltanto la storia ufficiale, cioè la loro.

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Le macerie dell’industrialismo

Quello che oggi mi preme è avanzare suggestioni che stimolino e aprano le menti e i cuori per ridare un futuro alle nostre terre più  martoriate e alla nuove generazioni alla luce delle lezioni della storia e per non ripetere gli stessi errori. Ritrovare e riconnettere i fili spezzati di una  storia che non è stata.

Il mio pensiero corre così  al famoso discorso sull’austerità di Berlinguer all’Eliseo del 5 gennaio 1977 e a  un Congresso della Cgil  dei primi anni’70 e alle domande  che ivi echeggiarono, rimaste senza risposta: dove,  cosa,  come e per chi produrre ? Sono domande pertinenti ancora e soprattutto oggi. Produrre qualsiasi cosa in un qualsiasi luogo, togliendo diritti e dignità al lavoro e sfruttandolo in tutti i modi possibili, è cosa  che contraddice, infatti, un cambio di paradigma del modello di sviluppo.

20161111_121925L’industrialismo e il consumismo si sono rivelate la  malattia e non il rimedio alle sofferenze, alle privazioni  e alle ristrettezze  di cui hanno patito per secoli le classi subalterne.  A questo esito, per ironia della storia, hanno contribuito anche le organizzazioni del movimento operaio nate per riscattare i più umili e finite nella “trappola” del progresso. Del resto l’industrialismo è stato una vocazione della cultura sviluppista della sinistra politica e sindacale anche in una città come Roma. Il manifesto  congressuale della Camera del Lavoro di Roma del 1977  raffigurava  l’ombra di una fabbrica con ciminiera che si rifletteva su Castel S.Angelo!  Quella immagine non fece scandalo alcuno. Era dopotutto il simbolo  di una rivendicazione storica del movimento operaio romano: il sogno irrealizzato di Roma Capitale come grande città industriale.

Oggi, fortunatamente, simili suggestioni sono tramontate, ma nel passato non si avevano di questi scrupoli. Basti pensare che fino agli anni ’20-’30 il Gazometro e La Pantanella  a Roma erano ubicati nella area industriale del Circo Massimo, ai piedi del Palatino e dell’Aventino! Chi pensasse e osasse fare una cosa del genere  oggi sarebbe da ricovero immediato! Bisognerebbe  essere degli ottusi operaisti, infatti, per rimpiangere le fabbriche in città. Chi sopporterebbe, oggi, i fumi nocivi di una ciminiera a pochi metri dalla finestra di casa? Anche questo è lo scandalo vergognoso di cui è vittima una città ultra-millenaria come Taranto!

L’industria chimica e siderurgica ha però già fatto il suo lavoro distruttivo;  negli oceani ci sono continenti di plastica, le nostre coste e pianure sono segnate da  un lunga catena di città e siti inquinati e inquinanti. Sono quarantaquattro le aree in Italia inquinate oltre ogni limite di legge: Trieste, Porto Marghera, Brescia, Mantova, Cengio, Falconara, Termoli, Terni, Manfredonia, Bari, Brindisi, Taranto, Crotone, Priolo, Gela, Milazzo, Napoli- Bagnoli, Litorale vesuviano, Fiume Sacco, Civitavecchia, Piombino, Casal Monferrato, Livorno, Porto Torres, Sulcis Iglesiente, ecc..

Ora molte aziende hanno chiuso, e resta il disastro ambientale. L’Italia e le nostre città sono disseminate di siti industriali dismessi colmi di reflui tossici abbandonati, che continuano a disperdere veleni nell’ambiente. Come uscire da uno sviluppo che ha inquinato e avvelenato le nostre città,  l’aria, la terra, i mari e le acque insieme ai cuori e alle menti dell’umano, per orientarsi verso un’economia e uno  sviluppo basato sulla bellezza e la cura dei luoghi, sulla gentilezza e sull’amore verso l’uomo e la natura, verso la madre-terra?

L’illusione del progresso (il nostro) sopravvive purtroppo ancora nelle pratiche politiche e sindacali, sopravvive nelle guerre per le materie prime e nell’industria delle armi  e nelle distruzioni che portano con loro. Sopravvive nelle servitù militari e industriali di cui è vittima una città altrimenti bellissima come Taranto con il suo magnifico entroterra e i suoi mari. Sopravvive nella rapina delle risorse naturali e di minerali preziosi dell’Africa da parte dei paesi occidentali e nelle sue terribili guerre tribali per accaparrarsi i dividendi della neo-colonizzazione. Sopravvive nei milioni di profughi ambientali e di quelli in fuga dalle guerre generate per il “nostro” benessere.

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Quale speranza per il futuro del lavoro?

“Dalla crisi emerge lo scheletro contadino della società italiana”, affermava il Presidente del CENSIS Giuseppe De Rita nel 45° Rapporto del 2011.  Tanti giovani acculturati e laureati stanno riscoprendo la terra e la cultura contadina portando con sé innovazione e nuovi saperi. Una nuova cultura contadina innestata sul recupero dei piccoli centri  spopolati e/o abbandonati delle zone interne  e collinari, sulla valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale  e paesaggistico, sul turismo sostenibile, sull’eno-gastronomia e sulla agricoltura sostenibile e di qualità: questa può essere la strada per il riscatto  del nostro passato e delle sue illusioni. Transitare da un modello concentrazionario – dove si centralizzano risorse, capitali, popolazione, forza-lavoro  in un singolo spazio-luogo  per ottimizzare le risorse produttive, privilegiando le zone costiere e le pianure – a un modello policentrico diffuso basato sullo sviluppo locale e puntando sulla valorizzazione dei territori e sulla decentralizzazione  delle risorse;  decongestionando le città e orientando lo spostamento della popolazione  urbana, della forza-lavoro, verso le aree interne, le colline  e i piccoli centri, dalla città verso la campagna.

È un compito, questo, che spetta alla politica ma che tocca da vicino la progettualità sociale delle organizzazioni dei lavoratori. Il lavoro – che è oggi la vittima di uno sviluppo sfuggito al controllo dell’umano – e le  organizzazioni dei lavoratori non  possono sottrarsi al dovere storico di riconciliarsi con l’ambiente e la natura, con la società e le comunità locali. Nondimeno in questa missione rimangono le possibilità di riscatto  del lavoro da un destino che lo relega oggi alla emarginazione sociale e ad una povertà senza la dignità della povertà contadina e artigiana.

Il capitalismo industriale fordista aveva illuso sulle sue presunte infinite possibilità di ridistribuire ricchezza e prestigio sociale ai salariati. L’organizzazione taylorista del lavoro era stata scambiata come ineluttabile progresso tecnico. Ha invece contribuito potentemente alla sua alienazione  e alla  spoliazione   delle sue qualità e del suo sapere. Oggi la globalizzazione ha distrutto  le illusioni del lavoro salariato e delle sue aspirazioni “rivoluzionarie”. Rimangono un esercito di precari e di disoccupati  e i cimiteri delle fabbriche dismesse nelle periferie delle nostre città, trasformate per amara ironia della storia – penso a Roma e all’ex Tiburtina Valley –  da santuari della rivoluzione proletaria a casinò del gioco d’azzardo. Il nucleo forte dei lavoratori stabili si è ridotto sempre di più  ed è concentrato nei diversi  settori pubblici, nelle imprese locali partecipate che gestiscono servizi pubblici, nelle grandi imprese private di servizi, e in quel poco che  resta di imprese industriali ancora competitive sui mercati internazionali. Come ripartire dalle macerie che ci ha  lasciato l’industrialismo  per reinventare un futuro del lavoro e della società? Come conciliare le speranze di intere generazioni escluse dal cosiddetto “sviluppo” con  gli interessi spesso corporativi dei lavoratori più protetti?  Sono le domande a cui dovrebbe rispondere un moderno sindacalismo confederale.

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Il sindacato oggi  è purtroppo lontano dal popolo dei  precari e  dei senza lavoro  tanto cari a Giuseppe Di Vittorio e alle sue leghe edili e bracciantili. In tante sue pratiche il sindacato si comporta, specie nei settori forti e protetti dell’economia, come una propaggine dell’impresa  e dei suoi interessi. Nei servizi pubblici prevale spesso l’interesse corporativo  dei lavoratori sulla difesa e tutela dei diritti dei cittadini.

Il Piano del Lavoro della  Cgil che fine ha fatto? Scomparso dall’agenda sociale e politica del paese! Migliaia di pagine scritte che non reggono il confronto con le due scarse e “misere” paginette del Piano di Di Vittorio che mobilitò, con gli scioperi a rovescio e l’occupazione delle terre, milioni di lavoratori edili e braccianti precari e disoccupati per la riforma agraria, per la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’elettrificazione delle campagne, e per un piano di investimenti pubblici per la ricostruzione del paese devastato dalla guerra. Il paragone con l’oggi è impietoso se pensiamo ai milioni di giovani precari e disoccupati  senza speranza e  senza rappresentanza sociale e politica. Dove sono le priorità strategiche di un moderno Piano del Lavoro? Anche questa la sento come una mia  sconfitta.

Riconciliare lavoro e bene comune. Una funzione possibile degli intellettuali

I lavoratori non possono essere estranei, come le imprese globali,  ai destini dei territori in cui vivono e dei popoli che li abitano. Questo non può farlo  un sindacalismo corporativo che leghi il destino dei lavoratori solo a quello dell’impresa, estraniandosi così dalla società, dai cittadini e dal perseguimento del bene comune.  Il lavoro potrebbe ritrovare la sua funzione  emancipatrice se fosse non solo finalizzato alla sua riproduzione sociale ma anche per realizzare l’umanesimo del lavoro e  una nuova civiltà del bene comune.

Walter Benjamin, grande filosofo marxista tedesco  del Novecento,  è stato un severo critico di una concezione marxista-progressista della Storia e della società dei consumi.  Nelle sue Tesi di filosofia della storia, scriveva: “Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l’opinione di nuotare con la corrente. Lo sviluppo tecnico era il filo della corrente con cui credeva di nuotare…”. Il Programma di Gohta ( Il manifesto della socialdemocrazia tedesca del 1875), denunciava Benjamin, definisce  il lavoro come ”la fonte di ogni ricchezza e di ogni cultura… cosa che fece inorridire Marx”. E continuava: “Questo concetto della natura del lavoro, proprio del marxismo volgare, non si ferma troppo sulla questione dell’effetto che il prodotto del lavoro ha sui lavoratori finché essi non possono disporne. Esso non vuol vedere che i progressi del dominio della natura e non i regressi della società…Il lavoro, come  è ormai concepito, si risolve nello sfruttamento della natura, che viene opposto – con ingenuo compiacimento – a quello del proletariato…”.

Certamente  è importante conquistare la libertà dalla sofferenza e dal bisogno. Aspiriamo per questo al denaro, al successo, ai beni materiali, alla sicurezza. Il lavoro è un mezzo per raggiungere questi scopi e il movimento sindacale ha svolto questa funzione per tutto il Novecento. Ma è proprio impossibile concepire il lavoro  al servizio della  società e del bene comune vivendo in armonia con la natura?  È un’illusione pensarlo? Lo scetticismo è giustificato.

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Lavoro e autogestione al Corto Circuito (Bioedilizia comunitaria)

L’idolatria del mercato e del consumismo dei “moderni” hanno sostituito,  nella civiltà industriale occidentale, la spiritualità e l’austerità naturale degli “antichi”. Le passioni “calde” della politica partecipata sono state sostituite da quelle “fredde” dell’economia e del business.  Viviamo in una cultura aggressiva e fortemente competitiva che ha permeato anche il mondo del lavoro.  L’ “io” ha sovrastato il “noi” e il bisogno di comunità. La democrazia  ha smarrito i  valori fondativi della Polis ed è degenerata nel mercato dei consumi. Il nostro sviluppo è nefasto perché incoraggia altri popoli  a comportarsi come noi e ad adottare i nostri stili di vita e i nostri valori egocentrici e materialisti.

Come invertire questa tendenza a partire da noi? Il nostro sistema di vita può rivelarsi insostenibile per la specie umana e per l’ecologia del vivente. Siamo in grado di cambiare i nostri paradigmi e la nostra cultura per fondare una visione alternativa dello sviluppo e del progresso? È questa la sfida aperta per il pensiero democratico e solidaristico, e per gli intellettuali che dovrebbero essere i promotori e i  custodi  del bene comune.

Nella visione gramsciana, ogni gruppo sociale crea  una sua categoria specializzata di intellettuali, organici alla sua funzione storica e produttiva. Così  Gramsci elaborò la figura dell’intellettuale organico alla classe operaia, ad una classe che si candidava ad essere egemone nella società industriale. Nell’epoca odierna della  decadenza delle classi che hanno fatto la storia della società industriale – la borghesia produttiva e la classe operaia – gli intellettuali, orfani  di questo ruolo storico, sono diventati in gran parte “propagandisti” del pensiero unico e dell’ordine esistente assunto come senso comune, al servizio spesso dei politicanti di turno e dei poteri costituiti. Gli intellettuali che amano il progresso umano, invece – orfani di una “classe” ormai dispersa –  non dovrebbero ridursi a  essere partigiani  sostenitori  di partitini o di politici  di sinistra autoreferenziali,  ma divenire portatori di una  visione critica del mondo e del potere, nuovi sacerdoti  custodi del bene comune e della sacralità dei beni comuni sociali e naturali, educatori delle nuove generazioni, e severi vigilanti dei costumi e dei comportamenti di quanti li denigrano  e li oltraggiano ogni giorno.

Il riscatto dei vinti e un sogno

La  sconfitta  della nostra generazione, che ha fallito nelle sue ambizioni di palingenesi sociale e che non ha saputo vedere  i rischi dell’inseguire il benessere e il successo a tutti i costi,  si è risolta nel crollo di tutti i suoi miti fondativi. Questa sconfitta sia di lezione per l’oggi affinché  non si smarrisca la memoria degli errori di ieri e delle sue sofferenze. La Storia non è solo un susseguirsi di eventi lineari in cui il passato sta alle nostre spalle. Esso ci parla  anche con il linguaggio e la memoria dei vinti e degli sconfitti redenti  e non solo con quello dei vincitori, affinché quello che non fu possibile ieri diventi possibile oggi o domani. Per Benjamin la rivoluzione futura ci sarà soltanto se il passato sarà redento. Essa è il “balzo di tigre nel passato”.  “ Il soggetto della conoscenza” – scrive ancora W. Benjamin – “ è la  classe stessa oppressa che combatte.., che porta a termine l’opera della liberazione in nome di generazioni di vinti”.

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Non so se  un giorno il mondo cambierà in meglio.  Ma se sarà così,  lo sarà non grazie a quelli che sono saliti sul carro dei vincitori, ma grazie ai popoli vinti ma non domati, alle classi oppresse, ai sacrifici  e alle testimonianze di tutti quelli che pur sconfitti ed emarginati, non si sono mai arresi. Per concludere. Che cosa posso dire oggi al  mio paese e alle terre violentate da cui  mi sono distaccato oltre quarant’anni fa, stravolte nella loro identità dalla modernità vincente?  Ho  un sogno per  Taranto e i paesi viciniori, città-martiri vittime di questo industrialismo avvelenato: la chiusura dell’ILVA con  una grande cintura verde attorno  e  un grande Museo da creare  lungo la catena produttiva dell’acciaio per  testimoniare  e mostrare  al mondo le brutture  e le sofferenze umane dolorose di una certa civiltà industriale,  che valga come monito per il futuro dell’umanità e  delle nostre terre martoriate.

Fonte: http://comune-info.net/2016/11/considerazioni-dalla-parte-dei-vinti/

2 commenti per “Considerazioni dalla parte dei vinti

  1. rita chiavoni
    21 gennaio 2017 at 17:35

    Dopo aver letto questa riflessione critica e appassionata mi sorge una domanda:
    chi sono i vinti?
    sono forse gli stessi che hanno contribuito al disastro descritto con enfasi dall’autore? O sono coloro che coglievano tutte queste contraddizioni e che urlando ai quattro venti proprio questi pericoli,come Cassandra, sono stati derisi e umiliati?
    Sapere chi sono i vinti, gli sconfitti è molto importante perchè se i vinti in questione sono coloro che hanno contribuito al disastro, come mi sembra di capire, possiamo dispiacerci umanamente, ma certamente non possono essere assolti. non sono dei vinti. Il loro pensiero, le loro analisi, la loro prassi è stata vincente , si sono alleati col capitale e la borghesia più predatoria e la storia non li assolverà.
    Certo il passato potrà esserci di grande aiuto per andare incontro al futuro sapendo che la lezione non può essere la semplice riproposizione di ciò che è stato. L’oggi è così diverso che non possiamo che immergerci in esso e partire da ciò che è.
    Vorrei ricordare dal fondo del vaso di Pandora esce per ultima la Speranza, che può anche essere vista, a fronte della sua qualità consolatoria, come l’ultimo e il peggiore dei mali perchè indugia su cambiamenti spontanei. Così non sarà.

  2. armando
    25 gennaio 2017 at 11:25

    “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, mi viene da commentare. Chi sono davvero coloro che già negli anni settanta avevano capito? E chi anche in questi anni? Allora, per certi aspetti, Pasolini, tanto lucido da aver visto persino la mutazione fisognomica del popolo coinvolto nel e dal mito dello sviluppo. Ma fu accusato di essere “reazionario”,anche alleato coll’oscurantismo clericale, e proprio dagli, allora, “rivoluzionari”. E oggi? Chi sono coloro che capiscono che la distruzione/dissoluzione di ogni cultura, tradizione, credenza popolare, ormai ampiamente avanzata, è direttamente il frutto e funzionale a questo capitalismo che modella le menti e le anime di tutti fino a indurre le persone a pensarsi come particella di capitale o capitale umano? Pochi, terribilmente pochi, e molti, fra quei pochi, non osano ancora riconoscere che su questioni fondamentali, come la mercificazione della vita, la sua fabbricazione “industriale”, avevano ragione piena gli “oscurantisti”. Ma se non si parte da qui, ossia dal recupero urgentissimo di ciò che del passato è da conservare in opposizione senza sconti al “moderno”, non si va da nessuna parte, sia che si pensi che ci saranno cambiamenti spontanei, sia che si pensi che quei cambiamenti possano essere “guidati”. Pasolini, comunsita antifascista ateo omosessuale, scrisse una poesia in cui faceva appello, per la salvezza del mondo, ai ragazzi di “destra”. Non perché li stimasse in quanto soggetti in carne ed ossa (nulla più lontano da lui dei picchiatori neri) ma perché intuiva che dalla sua parte, a sinistra, il deserto avanzava irrefrenabile.
    È quasi sicuro che questa
    è la mia ultima poesia in friulano:
    e voglio parlare a un fascista,
    prima che io, o lui, siamo troppo lontani.

    È un fascista giovane,
    avrà ventuno, ventidue anni:
    è nato in un paese
    ed è andato a scuola in città.

    È alto, con gli occhiali, il vestito
    grigio, i capelli corti:
    quando comincia a parlarmi,
    penso che non sappia niente di politica

    e che cerchi solo di difendere il latino
    e il greco contro di me; non sapendo
    quanto io ami il latino, il greco – e i capelli corti.
    Lo guardo, è alto e grigio come un alpino.

    “Vieni qua, vieni qua, Fedro.
    Ascolta. Voglio farti un discorso
    che sembra un testamento.
    Ma ricordati, io non mi faccio illusioni

    su di te: io so, io so bene,
    che tu non hai, e non vuoi averlo,
    un cuore libero, e non puoi essere sincero:
    ma anche se sei un morto, io ti parlerò.

    Difendi i paletti di gelso, di ontano,
    in nome degli Dei, greci o cinesi.
    Muori d’amore per le vigne.
    Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi.

    Per il capo tosato dei tuoi compagni.
    Difendi i campi tra il paese
    e la campagna, con le loro pannocchie
    abbandonate. Difendi il prato

    tra l’ultima casa del paese e la roggia.
    I casali assomigliano a Chiese:
    godi di questa idea, tienila nel cuore.
    La confidenza col sole e con la pioggia,

    lo sai, è sapienza sacra.
    Difendi, conserva, prega! La Repubblica
    è dentro, nel corpo della madre.
    I padri hanno cercato e tornato a cercar

    di qua e di là, nascendo, morendo,
    cambiando: ma son tutte cose del passato.
    Oggi: difendere, conservare, pregare. Taci!
    Che la tua camicia non sia

    nera, e neanche bruna. Taci! che sia
    una camicia grigia. La camicia del sonno.
    Odia quelli che vogliono svegliarsi,
    e dimenticarsi delle Pasque…

    Dunque, ragazzo dai calzetti di morto,
    ti ho detto ciò che vogliono gli Dei
    dei campi. Là dove sei nato.
    Là dove da bambino hai imparato

    i loro Comandamenti. Ma in Città?
    Là Cristo non basta.
    Occorre la Chiesa: ma che sia
    moderna. E occorrono i poveri

    Tu difendi, conserva, prega:
    ma ama i poveri: ama la loro diversità.
    Ama la loro voglia di vivere soli
    nel loro mondo, tra prati e palazzi

    dove non arrivi la parola
    del nostro mondo; ama il confine
    che hanno segnato tra noi e loro;
    ama il loro dialetto inventato ogni mattina,

    per non farsi capire; per non condividere
    con nessuno la loro allegria.
    Ama il sole di città e la miseria
    dei ladri; ama la carne della mamma nel figlio

    Dentro il nostro mondo, dì
    di non essere borghese, ma un santo
    o un soldato: un santo senza ignoranza,
    o un soldato senza violenza.

    Porta con mani di santo o soldato
    l’intimità col Re, Destra divina
    che è dentro di noi, nel sonno.
    Credi nel borghese cieco di onestà,

    anche se è un’illusione: perché
    anche i padroni hanno
    i loro padroni, e sono figli di padri
    che stanno da qualche parte nel mondo.

    È sufficiente che solo il sentimento
    della vita sia per tutti uguale:
    il resto non importa, giovane con in mano
    il Libro senza la Parola.

    Hic desinit cantus. Prenditi
    tu, sulle spalle, questo fardello.
    Io non posso: nessuno ne capirebbe
    lo scandalo. Un vecchio ha rispetto

    del giudizio del mondo: anche
    se non gliene importa niente. E ha rispetto
    di ciò che egli è nel mondo. Deve
    difendere i suoi nervi, indeboliti,

    e stare al gioco a cui non è mai stato.
    Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odii:
    portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò
    leggero, andando avanti, scegliendo per sempre

    la vita, la gioventù.

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