La vittoria di Putin alle elezioni russe deve essere salutata positivamente per alcune ragioni che vado brevemente a spiegare.
Questa più che poderosa affermazione politica, a distanza di due anni dall’inizio della guerra ufficiale contro l’Ucraina (il conflitto era cominciato almeno dieci anni prima a causa delle ingerenze degli USA in quel paese, il conseguente golpe del 2014 e l’aggressione ai russi del Donbass), conferma il sostanziale appoggio della maggioranza del popolo russo alla strategia del governo soprattutto per quanto riguarda il conflitto in corso con l’Ucraina e con la NATO. Ciò conferma che la leadership di Putin è ben salda e che il progetto dei governi occidentali di indebolire la Federazione russa sia con le sanzioni che con una guerra che avrebbe dovuto minarla internamente dal punto di vista del consenso, oltre che logorarla economicamente e militarmente, è fallito.
Tutto ciò, oltre agli oggettivi successi militari riportati sul campo dall’esercito russo – avvicina una possibile soluzione politica del conflitto, al di là delle scontate grancasse mediatiche occidentali.
L’intento della Russia, infatti, non è mai stato quello di impossessarsi dell’Ucraina ma di impedire che questa diventasse una base operativa della NATO, contestualmente alla cacciata o alla sottomissione violenta della popolazione russa del Donbass. E’ evidente a tutti che a distanza di due anni dall’inizio ufficiale delle ostilità la Russia non solo non è logorata ma è più solida di prima. Le sanzioni economiche, infatti, non l’hanno scalfita e, anzi, hanno avuto un effetto boomerang per l’Europa mentre l’andamento della guerra mette il governo ucraino e, di conseguenza, quelli dei paesi membri della NATO, in grave difficoltà. “Che fare?”, questo è l’interrogativo che la realtà concreta dei fatti pone ai governi occidentali. Di conseguenza, la prospettiva di una soluzione politica, data l’impossibilità oggettiva di poter prevalere sul piano militare, diventa più percorribile e realistica, e potrebbe vedere il passaggio delle repubbliche del Donbass alla Russia, la creazione di una “zona cuscinetto smilitarizzata” e tutto il resto del territorio al governo ucraino, con o senza Zelensky. Naturalmente è tutto da vedere, perché tale possibile soluzione politica ha necessità di tanti altri tasselli che al momento non è possibile prevedere. Chi prevarrà nelle prossime elezioni americane? Anche nel caso di una vittoria di Trump, siamo certi che il “deep state” e l’apparato militare industriale americano molleranno la presa? E la Gran Bretagna, e la Polonia e soprattutto la Francia? Quale sarà l’atteggiamento che assumeranno? Tutto ancora da vedere e da verificare.
Dopo di che c’è l’altro grande risvolto positivo che è di natura geopolitica. Una Russia più forte aumenta il peso specifico e la forza complessiva dei paesi BRICS in tutto il mondo e, soprattutto della Cina (oltre che della Russia, ovviamente) e quindi crea condizioni migliori per il processo verso un mondo multipolare. Non solo, l’effetto domino si avrebbe anche su diverse altre aree del pianeta, innanzitutto sul Medioriente. Se i palestinesi avranno ancora una speranza di non essere cancellati ed espulsi e di avere uno straccio di terra sul quale edificare un loro stato, ciò sarà possibile soltanto se gli stati BRICS, e in particolare la Cina e la Russia, avranno la forza necessaria per imporre, anche in quel caso, una soluzione politica, anche se per lo più per la tutela dei loro interessi economici e commerciali. Non è certo un mistero che la crisi ucraina e quella israelo-palestinese hanno un minimo comun denominatore, e cioè il tentativo di bloccare le vie di accesso della Cina verso l’Europa e il Mediterraneo e per tale finalità, la cacciata dei palestinesi da Gaza (o comunque l’annichilimento delle loro aspirazioni ad un vero stato) diventa un elemento strategico.
Ciò detto, passo invece doverosamente ad un altro genere di considerazioni, sicuramente meno importanti dal punto di vista geopolitico e soprattutto per ciò che riguarda la prospettiva della pace (o purtroppo della guerra) nel mondo ma egualmente rilevanti.
Un paese dove la forza di governo ottiene l’87% dei consensi dei votanti – il famoso “voto bulgaro” – e le opposizioni racimolano un magro 11%, è un paese che dal mio punto di vista ha un grave problema in termini di deficit democratico. Sia chiaro, non sto dicendo che il voto dei russi sia stato estorto con la forza. Penso però che sia l’effetto di una società tendenzialmente passiva e volutamente passivizzata sotto il profilo dell’impegno e della partecipazione alla vita politica, per lo meno nella sua grande maggioranza, che tende a uniformarsi e a delegare, specie in favore dell’”uomo forte”. Certamente, è innegabile che anche questo aspetto è parte della storia e della tradizione russa, anzi, in quel paese l’”uomo solo (e soprattutto forte) al comando” è vissuto, a differenza nostra, addirittura come un valore e non come un disvalore. Ma questo non toglie che ciò contenga in sé anche risvolti molto pericolosi, perché in un contesto sociale siffatto, la dialettica e la libera espressione del dissenso che costituiscono la linfa vitale di ogni società, tendono ad essere devitalizzati a priori o repressi a posteriori. Tanto per essere chiari e per evitare equivoci o fraintendimenti, questa situazione testè descritta, con relative ricadute sul piano della agibilità democratica, è stata a suo tempo e più volte denunciata anche dai diversi partiti comunisti russi, ivi compreso quello più grande, cioè quello guidato da Ziuganov, per lo meno fino all’inizio ufficiale della guerra, poco più di due anni fa.
Fonte foto: La Stampa (da Google)