La montagna che partorisce il topo: Renzi e l’Europa.

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Il Governo italiano, dopo settimane di polemica in solitudine contro la Commissione europea, ha finalmente prodotto un documento di posizione reso pubblico sul suo sito. Un documento che è di sostanziale resa alle filosofie mainstream della Trojka, e che costituisce un debole tentativo di mantenere un protagonismo italiano di facciata, ma sostanzialmente di resa. Detto documento, in estrema sostanza, chiede le cose seguenti:

  1. Una maggiore severità delle procedure di correzione degli squilibri macroeconomici, con riferimento al riassorbimento dell’ingente avanzo di bilancia commerciale della Germania;
  2. Una imprecisata e timida richiesta di rivedere, non si sa come ed in quale misura e da parte di chi, i parametri del patto di stabilità;
  3. Un maggior coordinamento delle politiche fiscali nazionali, tramite il Ministro delle Finanze europeo e lo European Fiscal Board;
  4. Una sorta di scambio di buone pratiche fra gli Stati membri (ovviamente senza fare cenno ad alcuna previa valutazione delle stesse) in materia di riforme strutturali (precarizzazione del mercato del lavoro, liberalizzazioni, smantellamento del ruolo del soggetto pubblico e gli altri ammennicoli neoliberisti);
  5. Un rilancio degli investimenti pubblici tramite non ben precisati strumenti finanziari (si accenna vagamente alla possibilità di emettere bond congiunti, fra Ue e Stati membri) e l’assunto fideistico che i maggiori profitti generati dalle riforme strutturali vadano a finanziare maggiori investimenti privati;
  6. Il completamento dell’unione bancaria, essenzialmente tramite l’anticipazione dell’entrata in funzione del fondo di backstop e l’istituzione della garanzia comune sui depositi bancari, che la Germania non concederà mai, nemmeno se Renzi occupasse Berlino con l’Armata Rossa;
  7. L’ulteriore allargamento del mercato comune, con riferimento al settore energetico ed a quello delle gare pubbliche, nonché al contrasto al dumping fiscale;
  8. Una strategia europea per l’innovazione, che però esiste già, forse a Palazzo Chigi non lo sanno, si chiama Horizon 2020;
  9. Una assicurazione europea contro la disoccupazione ciclica, che per evitare azzardi morali si attiverebbe solo in presenza di rilevanti e duraturi shock ciclici asimmetrici (ovviamente senza nemmeno dare una idea della soglia entro la quale si attiverebbe);
  10. Una preghierina diretta ad aumentare la solidarietà europea nell’affrontare le politiche migratorie, ivi compresa la richiesta di fonti finanziarie specifiche;
  11. L’idea di trasformare l’Esm in una sorta di Fondo Monetario Europeo, ovvero (si presume da come funziona il FMI) che concede prestiti ai Paesi membri indebitati o in squilibrio di bilancia dei pagamenti. Fondamentalmente, nella sostanza già oggi l’Esm è così. A meno che non si pensi che tale istituzione debba emettere una valuta-unità di conto come i DSP del FMI, al fine di finanziare disavanzi di partite correnti intra-euro in caso di carenze di liquidità denominata in euro, ma il documento non lo dice ed è legittimo sospettare che nessuno ci abbia pensato su.

Trascurando quindi le proposte politicamente irrealizzabili oppure del tutto astratte o imprecisate, che hanno il sapore del vago auspicio (come la b, la e o la j) o quelle che riscrivono in termini alati cose che esistono già (come la h e la k) il succo di questa proposta politica non è nient’altro che la riproposizione della direzione delle politiche già in atto dentro la Ue, che tendono ad allargare lo spazio del mercato unico e della concorrenza, a portare avanti le riforme strutturali neoliberiste con un modello sostanzialmente unico, ad imporre un maggior coordinamento delle politiche economiche (ma in questo caso, si noti l’italica furbata: si dice sì ad un Ministro delle Finanze europeo, proposto originariamente dalla Germania, ma sotto la forma dell’alto rappresentante presso la Commissione, cioè un Mr. Pesc dell’economia, che come il mr. Pesc già esistente non conta assolutamente niente, mentre i singoli Ministri economici nazionali mantengono la loro autonomia).

Poiché scrivere qualcosa che chiede sostanzialmente di fare ciò che già si fa potrebbe sembrare, per così dire, leggermente futile, le proposte per così dire più sostanziali sono costituite dalla richiesta di maggiore severità nei confronti del surplus commerciale tedesco, dalle integrazioni sui bail in bancari, e dall’assicurazione europea contro la disoccupazione. Esaminiamo queste tre proposte.

La prima proposta chiede il riassorbimento del surplus commerciale tedesco, e parte dall’assunto per cui un surplus delle partite correnti segnala un eccesso di risparmio. E si tratta di una nota identità contabile. Se Y è il Pil, allora Y = C + I + X, dove C sono i consumi, I gli investimenti e X il saldo delle partite correnti. Pertanto, Y – C – I = X, dove il primo membro dell’equazione non è nient’altro che il risparmio nazionale. Per cui, se gli squilibri di bilancia delle partite correnti vengono riequilibrati, ovvero X=0, si ha la famosa identità contabile (Y – C) = I, ovvero l’eguaglianza fra risparmi ed investimenti, sulla quale la teoria economica neoclassica ha costruito un intero mondo artificiale.

Questo mondo artificiale pretende, in estrema sostanza, che l’unica leva degli investimenti sia data dalla quantità di risparmio nazionale accumulato, per cui per aumentare gli investimenti occorre tagliare la spesa pubblica corrente (che incanala parte del risparmio nazionale nel mantenimento dell’apparato pubblico) e fare una politica fiscale di favore, soprattutto per i redditi più alti, che hanno la maggiore propensione al risparmio (donde la curva di Laffer, la reaganomics che taglia le tasse ai ricchi, ed altre amenità). Di conseguenza, pensano i montiani (e Renzi puntualmente copia) basta eliminare il surplus di risparmio nazionale inutilizzato, segnalato contabilmente dal surplus della bilancia commerciale tedesca, per far ripartire gli investimenti, rimettendolo in circolo e redistribuendolo ai Paesi in disavanzo di bilancia commerciale. Purtroppo, però, il mondo non funziona con le identità contabili. Pierangelo Garegnani, in un paper ripreso nel 2015 dalla Review of Political Economy, spiega con grande chiarezza il perché dell’assenza di relazione fra risparmio ed investimento, amplificando la critica keynesiana originaria. Intanto, indagare su tale relazione ha senso solo nel lungo periodo, perché nel breve, per definizione, gli impianti, e quindi i relativi investimenti, sono fissi, quale che sia lo stock di risparmio; se la domanda di investimento è inferiore allo stock di risparmio di piena utilizzazione degli impianti, avremo I<S. Nel lungo periodo, poi, gli investimenti non tendono ad adeguarsi al livello di risparmio, ma alla domanda di beni anticipata dagli imprenditori al tempo n, che determina il livello di capacità produttiva disponibile, e quindi i livelli di occupazione e di reddito allo stesso tempo n. Di conseguenza, i livelli di reddito determinati al tempo zero produrranno un determinato stock di risparmio nazionale al tempo n+1. In altri termini, nel lungo periodo gli investimenti determinano il livello di risparmio, ma non è il risparmio a determinare il livello di investimenti.

Di conseguenza, il livello di investimenti è influenzato da una serie di altre variabili, in primis la domanda effettiva di beni anticipata dall’imprenditore (il che incorpora una sua valutazione in termini di aspettative, di animal spirits), poi l’innovazione tecnologica, infine il calcolo atteso di redditività dell’investimento rispetto al suo costo.

Allora, se anche la Germania desse retta a Renzi (per assurdo) e facesse una politica di stimolo alla sua domanda interna per consumi per azzerare il suo avanzo commerciale, via maggiori importazioni e riduzione della competitività-costo delle esportazioni, non necessariamente ciò indurrebbe un aumento degli investimenti nei Paesi membri in deficit. Gli imprenditori di questi Paesi potrebbero decidere di non voler servire il mercato tedesco, potrebbero essere spiazzati da maggiori importazioni della Germania da Stati extra-area euro che coprano la maggiore domanda interna tedesca, l’industria tedesca potrebbe usare la capacità produttiva inutilizzata per coprire la maggiore domanda dei suoi cittadini. Il problema, quindi, non è quello di fare politiche di stimolo della domanda interna per consumi della Germania, ma di stimolare la domanda interna di tutti i Paesi dell’eurozona, ivi compresi quelli in deficit di bilancia dei pagamenti. Anche perché determinate parti del sistema produttivo (quasi tutti i servizi, ad eccezione di alcuni settori, come turismo, trasporti o Ict, gran parte dell’edilizia, le public utilities, il piccolo artigianato, ecc.) hanno mercati di riferimento prettamente localistici, per cui un aumento della domanda interna di consumi tedesca per riequilibrare il suo surplus commerciale non avrebbe effetti su tali segmenti produttivi ed occupazionali negli altri Stati membri. Certo, è plausibile che un aumento degli investimenti interno alla Germania prodotto da una politica fiscale espansiva sui consumi abbia effetti benefici per i produttori italiani di beni intermedi e strumentali che esportano verso la Germania. Ma non sarebbero certo effetti tali da indurre una ripresa economica dell’intera eurozona.

La seconda proposta è ancora più banale. Intanto, una assicurazione europea contro la disoccupazione ciclica, di per sé e senza specificazioni ulteriori, dovrebbe, a rigor di logica, andare a sostituire le assicurazioni nazionali che incidono sulla stessa componente (in Italia, la Cassa Integrazione Straordinaria, che, anche se formalmente i beneficiari sono ancora occupati, funziona spesso da primo ammortizzatore in caso di crisi aziendale, e poi la Naspi). Ma allora, da un punto di vista macroeconomico e sociale, l’impatto netto di un simile provvedimento potrebbe essere nullo o negativo, se va a sostituire sistemi nazionali di pari o maggiore livello di generosità e copertura. Avrebbe solo un effetto sui bilanci pubblici nazionali, peraltro discutibile, perché poi gli stessi Stati membri dovrebbero contribuire a finanziare il sistema europeo.

Viceversa (ma andrebbe specificato, cosa che il documento del Governo si guarda bene dal fare) tale assicurazione potrebbe essere aggiuntiva rispetto ai sistemi nazionali, attivandosi solo in caso di grave crisi economica asimmetrica (che colpisce cioè solo alcuni Stati membri e non altri). Ma qui sorge un problema concettuale. Con la precarizzazione selvaggia dei mercati del lavoro nazionali, l’elasticità dell’occupazione al ciclo è divenuta meno prevedibile che nel passato. Se la legge di Okun, formulata in una epoca in cui il mercato del lavoro era stabile, diceva che occorrono circa tre punti di caduta del Pil per produrre un aumento di un punto della disoccupazione, tale relazione è, numericamente, più intensa, ma anche diversa da Paese a Paese. Perché dipende dal maggiore o minore livello di protezione del lavoro offerto da ogni singola legislazione nazionale: con più rigidità delle regole giuslavoristiche, avremo meno sensibilità dell’occupazione al ciclo, viceversa, dove c’è più precarietà, ci sarà più elasticità. Ne consegue che gli Stati membri con una legislazione del lavoro relativamente più garantista, che in caso di crisi economica subirebbero un incremento della disoccupazione ciclica meno ingente rispetto a quello subito, a parità di caduta del Pil, da Paesi con mercato del lavoro più precario, rivendicherebbero una minore compartecipazione finanziaria al meccanismo europeo di assicurazione contro la disoccupazione ciclica. Perché un principio attuariale fondamentale dice che il premio pagato per una assicurazione deve avere una proporzionalità rispetto all’entità del danno eventuale. I Paesi macroeconomicamente più fragili, quindi più esposti al rischio di uno shock ciclico asimmetrico, e/o con i mercati del lavoro nazionali maggiormente destrutturati e precarizzati, tipo l’Italia e gli altri Piigs mediterranei, tanto per dire, rischierebbero di autofinanziarsi da soli, in larga misura, tale meccanismo, con una partecipazione poco più che simbolica da parte degli Stati membri economicamente più robusti e lavoristicamente più garantisti. Allora tanto varrebbe tenersi meccanismi nazionali.

Ma anche nel caso impossibile in cui ci fosse un principio solidaristico per cui tutti versano quote uguali a tale fondo di assicurazione, l’accresciuta flessibilità della disoccupazione al ciclo economico negativo, mentre essa rimane rigida rispetto ad un ciclo di ripresa, rende meno chiara la distinzione fra disoccupazione ciclica e strutturale. Chi perde il lavoro oggi, nel giro di meno di un anno diventa un disoccupato strutturale, perché la velocità dei cambiamenti delle competenze richieste sui mercati del lavoro determina una rapidissima degradazione degli skill personali, rendendo molto difficile i reinserimento, anche nelle fasi di ripresa. Il senso di una assicurazione contro la disoccupazione ciclica, che ovviamente finisce nel momento in cui il ciclo economico torna ad essere positivo, ne risulta così inficiato. Nella maggior parte dei casi, infatti, i disoccupati creatisi nella fase di declino del ciclo non vengono riassorbiti in tempi ragionevoli in quella ascendente, e quindi continuerebbero ad aver bisogno di un sostegno che, però, è cessato. Il problema vero è che tale meccanismo, come immaginato dal documento del governo italiano, non prevede strumenti di riqualificazione e riorientamento al lavoro necessari per reinserire i disoccupati nelle fasi di ripresa dell’economia. E non lo può prevedere perché manca una agenzia del lavoro europea che faccia questo mestiere, che va dal profiling ed orientamento, alla formazione, fino al collocamento.

Per finire, le timide richieste (peraltro riprese dagli stessi impegni normativi comunitari) di completamento della normativa sull’unione bancaria (anticipazione dell’attuazione del back stop, realizzazione della garanzia europea sui depositi) accettano implicitamente, come tutto il documento, la logica neoliberista delle politiche comunitarie, che nel caso dei salvataggi bancari tratta le banche come qualsiasi altra impresa, prevedendo che in caso di liquidazione le perdite siano coperte da obbligazionisti, azionisti e grandi depositanti. Ed il problema centrale, che il documento non affronta, è proprio che le banche non sono imprese qualsiasi. Se fallisce una impresa molto grande che produce bulloni, ci saranno effetti sociali, ma non crolla l’intera economia. Se fallisce una grande banca, tramite l’interbancario produce una crisi di liquidità sull’intero sistema, facendo crollare il circuito dei pagamenti, e creando una crisi trasversale a carico di tutti quelli che hanno bisogno di denaro, cioè dell’intero sistema economico. Inoltre, per i lfatto di custodire i depositi del pubblico, le banche esercitano anche una funzione di pubblico interesse. Ciò implica che le banche in crisi vadano nazionalizzate (come ha fatto con le due banche ipotecarie Freddie Mac e Fanny Mae, seppure per il breve periodo necessario per risanarle, persino l’Amministrazione statunitense, il Paese del libero mercato). Per preservare il sistema e tutelare la loro funzione pubblica. Il bail in non fa che creare una crisi di fiducia degli investitori nelle banche, e quindi si riflette negativamente sull’intero sistema creditizio.

Nella sostanza, il documento del Governo italiano, soprattutto dopo i fuochi d’artificio delle polemiche delle settimane scorse, appare debole e subordinato. Non prefigura alcuna innovazione significativa, non fornisce alcuna risposta che sia minimamente all’altezza della crisi enorme dell’Unione Europea, limitandosi a riaffermare una sostanziale subordinazione alle filosofie di politica economica europea, formulando auspici generici di cambiamento, o chiedendo piccole e poco incisive riforme senza mettere in discussione il quadro generale. Che è quello che ha creato la recessione e la deflazione, che è quello che ci tiene intrappolati nella disperazione. Al di là dei singoli punti del documento, una iniziativa politica in sede europea non può chiedere qualche marchingegno o qualche tecnicismo. Deve rimettere in discussione il paradigma generale, di tipo liberista, e chiedere un cambiamento di direzione radicale, e generalizzato.

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