Fino ad oggi i marxisti hanno a ragione sempre interpretato le evidenti sinergie, ma anche le contraddizioni periodiche, tra capitalismo e pensiero liberale come manifestazioni di un unitario ed inscindibile assetto strutturale del dominio alto-borghese, di conseguenza non hanno mai preso in considerazione l’idea che i due aspetti ideologici del dominio di classe potessero essere disgiunti e separati, anche solo in parte, in quanto di fatto indipendenti.
La non disgiunzione teorica tra pensiero liberale e capitalismo tout court ha purtroppo favorito l’avanzata del capitalismo.
Dividi et impera sostenevano gli antichi romani, ma i regimi comunisti del passato non hanno saputo cogliere la differenza, non sono riusciti per tempo ad incunearsi in questa debolezza per scardinare i sistemi capitalistici loro ostili, non hanno saputo raccordare ed armonizzare il socialismo e la libertà.
In realtà non hanno potuto per motivi vari, tra i quali lo sbilanciamento dell’economia collettivizzata verso una produzione quasi tutta orientata verso l’industria pesante e poco incline all’industria leggera, argomento questo che meriterebbe un approfondimento a parte.
In ogni caso, oggi paghiamo le conseguenze di quella mancata comprensione. Tardive e deboli sono state le recenti aperture del comunismo libertario internazionale, così come vane furono le ultime teorizzazioni del comunismo europeo già preda dei traditori riformisti interni, così che lo slogan “tutte le libertà meno una” (meno quella della libertà economica privata tesa allo sfruttamento) è rimasto lettera morta.
Ma non è mai troppo tardi.
Intanto è bene precisare al meglio l’argomento che stiamo analizzando, al fine di fugare qualsiasi equivoco: il liberalismo o pensiero liberale (da distinguere nettamente dal liberismo, essendo quest’ultimo una teoria solo economica del libero mercato capitalistico) ha prodotto in sinergia con il capitalismo, sia pure in modo collaterale, indubbi risultati d’effettivo progresso della condizione generale dell’uomo e suoi diritti in fatto di libertà, anche se poi nelle concrete applicazioni limitati soprattutto alle fasce sociali medio alte. Ma è indubbio che il pensiero liberale abbia permesso che le più disparate libertà si manifestassero pienamente ad una velocità sconosciuta alla storia, si consolidassero e divenissero sempre maggiori di generazione in generazione (nonché di degenerazione in degenerazione), infine emancipando categorie sociali all’inizio escluse.
Mentre le lotte spontanee e le manifestazioni organizzate dai sindacati, dai partiti, dai movimenti e dalle associazioni di sinistra concorrevano all’affermazione di spazi sempre maggiori di libertà e di conquiste civili (comunque permesse dall’assetto liberale delle società di riferimento e dalla falsa coscienza dell’ideologia dominante), l’economicismo capitalista si avvantaggiava scoprendo sempre più che la garanzia della libertà teorica risultava funzionale alla propria impostazione merceologica, la quale reggeva ed era anzi in grado di fagocitare e metabolizzare tutto, dalle conquiste proletarie dovute alla dialettica di classe fino ai risultati positivi (per i proletari) della più aspra lotta di classe.
Il portato liberale si dimostrava così strumentalmente corretto sia dal punto di vista dell’ideologia borghese che da quello pratico del modello di sviluppo economico ab libitum, ampliando il bacino dei consumi, rafforzando con sempre maggiori libertà di mercato il dominio ideologico borghese, infine favorendo l’accumulazione e la circolazione della merce-denaro.
Alla fine risultò che quanto più l’impostazione di un paese capitalista fosse liberale tanto maggiormente riusciva ad imprimere velocità d’espansione al mercato. Ancora oggi sono visibili le differenze tra società capitalistiche arcaiche indotte ad accettare le libertà ob torto collo e le società liberali avanzate.
Ciò dimostra che i risultati del pensiero liberale non si affermano per motu proprio, ed esso può essere adattato ad altre forme di organizzazione sociale. Un altro fattore fondamentale riposa nel fatto che le manifestazioni di libertà congeniali e strumentali all’affermazione di modelli di sviluppo mercantili iperproduttivi e iperconsumistici devono il loro successo anche alla particolare interpretazione della democrazia da parte del dominio ideologico capitalistico, ovvero democrazia intesa soprattutto come libertà, e libertà di intrapresa economica sopra tutto, e non come rispetto della volontà popolare di scegliere radicalmente tra modelli economici e stili di vita diversi. Quest’ultimo punto rappresenta invece il più genuino e tradizionale intendimento della democrazia.
Detto questo, condivido le conclusioni di Fabrizio Marchi, il quale nell’articolo intitolato “Capitalismo e liberalismo potrebbero divorziare?” (pubblicato il 4 gennaio 2017 in un editoriale del giornale online l’Interferenza), afferma che è ormai “giunta l’ora di cominciare a pensare che liberalismo e capitalismo/liberismo possano essere separati. La qual cosa non comporta, ovviamente, l’adesione al pensiero liberale, ma solo la presa d’atto che i due non solo non necessariamente marciano assieme, ma che il secondo (il capitalismo) marcia forse e addirittura meglio senza il primo (il liberalismo).
Se la storia ci ha dimostrato qualcosa, è che il capitalismo è un sistema (rapporto di produzione) e un’ideologia (accumulazione illimitata del capitale e forma merce elevata a feticcio e oggi “assolutizzata”, cioè capace di occupare ogni spazio non solo dell’agire umano ma dell’umano stesso) estremamente flessibile, in grado di coniugarsi con qualsiasi contesto storico e culturale.
Il capitalismo, nella sua accezione liberista, ha convissuto e prosperato allegramente con tutti i fascismi, con il nazismo, con le dittature militari e clericali, con i regimi apertamente razzisti, e oggi con le monarchie assolute wahhabite, con lo stato-partito ‘neoconfuciano’ cinese, la società organizzate per caste indiana e in generale con tutti quegli stati asiatici (la quasi totalità) a capitalismo cosiddetto ‘autoritario’.” (L’articolo è presente integralmente tra i documenti ufficiali di questo gruppo).
Fabrizio Marchi ipotizza quindi il divorzio fra capitalismo e liberalismo, ma anche se ciò non dovesse avvenire rimane comunque valida la sua determinazione finale, la quale sembra chiamare direttamente in causa il nostro movimento denominato “Comunismo democratico rivoluzionario” per la costruzione del Nuovo Comunismo: “Tale divorzio (sempre eventuale ed ipotetico), che però parrebbe essere nei fatti, potrebbe consentire a noi – e quando dico noi intendo dire tutti coloro che provengono dal Movimento Operaio e da tutte le sue declinazioni e determinazioni storiche, ma in particolare i marxisti – di recuperare ciò che di positivo c’è anche nel pensiero liberale, che sottratto al dogma capitalista/liberista e inserito all’interno di un pensiero critico e anticapitalista, potrebbe risultare anche una carta vincente, metaforicamente parlando, non solo da un punto di vista meramente tattico ma strategico. Del resto, come negare che quella della coniugazione fra eguaglianza e libertà sia stata una delle note dolenti dell’esperienza comunista più o meno in tutte le sue storiche determinazioni?
Mi sembra che la questione sia più che mai attuale e che sia giunto il momento di aprire una riflessione in tal senso.”
A sostegno della tesi di Marchi è intervenuto Rino Della Vecchia sulla stessa rivista, con un colto intervento di cui riporto la parte finale: “Nessuno di noi prova imbarazzo nell’ammirare i lasciti dell’architettura dell’età classica, né di quella dei secoli recenti. Eppure sono tutte creazioni di civiltà fondate sulla rapina, lo sfruttamento e l’umiliazione delle masse. Questo non è sufficiente a farcele odiare o a volerle demolire.
Nemmeno le motivazioni della loro creazione (emulazione, ostentazione, volontà di potenza) ce le fa apparire rottamabili. Non è necessario essere credenti per salvaguardare la Sistina. Quando i credenti saranno scomparsi e il Papa sarà un lontano ricordo, gli atei – quelli intelligenti – difenderanno con ogni mezzo quei capolavori. Ad onta della loro origine.
La borghesia settecentesca e ottocentesca che creò il liberalismo è ormai scomparsa. Quelli che furono (e sono) i suoi nemici sono chiamati a difendere quella grande creazione. Finché sarà possibile.
Sono ateo. Non voglio distruggere le Cattedrali.
Sono figlio della classe operaia. Voglio la fine del liberismo non quella delle libertà liberali.
Facciamo nostra l’eredità giacente.”
Anche se ancora non del tutto giacente, noi siamo già molto avanti nell’elaborazione in senso comunista di tale eredità. Per “noi” intendiamo il movimento “Comunismo democratico rivoluzionario” per il “Nuovo Comunismo”, raggiungibile velocemente tramite il blog facebook:
https://www.facebook.com/groups/Com…
Il movimento ha già elaborato una nuova, coerente e completa teoria della prassi rivoluzionaria, ma soprattutto successiva alla rivoluzione in grado di prefigurare una futura società socialista libertaria, molto diversa da quelle del passato e del triste presente (il riferimento principale va in particolare all’Urss ed alla Cina).
Chi volesse approfondire può chiedere l’iscrizione al gruppo sopra in link, e consultare i numerosi documenti ufficiali presenti nella sezione File raggiungibili cliccando sull’omonimo tasto in cima alla pagina principale del gruppo. (a.f.c.)