Derive

La catastrofe che ci ha colpiti è stata esogena; in questo, diversa dalla prima guerra mondiale. Quella fu un suicidio collettivo dovuto alla totale cecità delle classi dirigenti dell’epoca; questa ci è capitata addosso in un modo assolutamente imprevisto.

La cecità delle classi dirigenti di allora impedì loro di capire la natura della guerra e i nuovi protagonisti del dopoguerra; lotta di tutti contro tutti segnata dal dominio della violenza. Un mondo diverso e prossimo anch’esso al disastro; evitato soltanto  perché la cultura stessa del nazifascismo conteneva in sé la guerra e la catastrofe. E per l’unità, momentanea ma decisiva, dei suoi antagonisti.

Oggi, possediamo la capacità di cogliere la portata e il senso di quello che sta succedendo. E magari gioire (  tra di noi…) del fatto che siano le sue stesse classi dirigenti  a rimettere in discussione, e nelle fondamenta, un sistema che si riteneva acquisito una volta per sempre. Rimane, però, il fatto che i sostenitori di un nuovo e più avanzato ordine mondiale sono ancora, qui ed oggi, dei profeti disarmati; e che le tendenze in atto sono suscettibili, all’interno di una crisi destinata a durare assai più a lungo e con più pesanti effetti di quel che non si pensi, di portarci verso mondi peggiori di quelli di prima. E nei più diversi campi.

Vediamo come e perché.

DISUGUAGLIANZE

Per decenni, e fino all’altro giorno, ci veniva raccontato, che la disuguaglianza era una condizione individuale. E perciò, in sé e per sé, momentanea e superabile. Perché eri potenzialmente in grado di salire i gradini della scala sociale. E soprattutto perché questa scala si avvicinava sempre più a te. Crescevano i pil dei vari paesi; e più rapidamente in quelli più poveri. E, al loro interno, diventava più ricca una parte sempre maggiore della popolazione; e tu eri teoricamente e magari anche praticamente libero di godere dei benefici della globalizzazione andando verso i paesi o le città dove ti si aprivano nuove opportunità.

Poi il meccanismo ha cominciato ad incepparsi. Ma senza rimettere in discussione questo convincimento. C’erano, certo, politici ed economisti a rilanciare il tema della disuguaglianza; ma l’impressione dei più era che lo facessero per onor di firma e poi con argomenti – l’1% della popolazione mondiale dispone dell’X per cento della ricchezza mondiale e così via – magari statisticamente significativi ma il cui impatto emotivo era praticamente nullo.

Ma poi è venuta la pandemia a strappare il velo; e a far capire a tutti che la disuguaglianza non è una condizione individuale ma un destino collettivo.  Legato al lavoro che fai e alle condizioni in cui lo svolgi. Alle fonti del tuo reddito. Alla tua età. Alla tua condizione umana e al tuo grado di solitudine o di dipendenza. All’ambiente in cui vivi. Alla tua possibilità di accesso ai servizi collettivi. Al paese in cui vivi e alla natura  delle sue classi dirigenti. Potremmo continuare; parlando dei mille esempi che ognuno di noi ha davanti ai propri occhi. I focolai di morte degli ospizi. I braccianti, i disoccupati e i lavoratori al nero o nei call center del nostro paese. I malati cronici per i quali non c’è più spazio negli ospedali. Ma anche, più lontano da noi: i 12 milioni degli abitanti di Kinshasa  che dispongono di appena 50 ventilatori; i milioni di lavoratori migranti nei paesi del Golfo, senza protezione e senza quarantena; e ancora le moltitudini indiane che scappano dalle città dove non possono né lavorare né vivere per andare verso il nulla; agli abitanti dei ghetti di New York o di Chicago dove la speranza di vita e la mortalità infantile sono a livelli da terzo mondo; e ancora e ancora.

Destini collettivi che avrebbero bisogno di profeti per essere denunciati agli occhi del mondo; e di orecchie attente per essere oggetto di attenzione e di considerazione.

Oggi non esistono né gli uni né le altre. Certo tra i fantastiliardi stanziati nel mondo ci avanzerà qualcosa per tutti. Né mancano misure e proposte, tendenti a garantire sostegni specifici o redditi di base. Ma manca il progetto  complessivo di lotta alle disuguaglianze; e la consapevolezza del dramma che ci attende.

Ne pagheremo, presto, le conseguenze.

GOVERNO E POTERI

Almeno a livello politico, il dramma che viviamo ha oramai un unico protagonista. Il governo.

In nome dell’unità nazionale, le grandi rivolte dei mesi scorsi sono scomparse dalle piazze. Così a Hong Kong. Così in Libano e in Algeria. Così in Francia ( anche perché il governo ha rinviato a data da destinarsi l’attuazione della riforma del sistema pensionistico, così come Putin quella costituzionale). A tacere è anche l’India e l’America latina ( con l’eccezione del Cile); mentre in Venezuela lo stesso Guaidò si è dichiarato disposto a formare un governo, appunto di unità nazionale, ma senza Maduro.

Per altro verso questa unità nazionale non è la premessa, ma la conseguenza della centralità dei governo o, più esattamente, del nuovo ruolo che questi hanno assunto.. Al punto che questi, come nel caso americano, occupano la scena anche quando lo scontro tra i partiti è radicale.

Il fatto è che, negli Stati Uniti, lo stesso Biden è scomparso dalla scena. Perché non c’è campagna elettorale; perché l’esercizio della democrazia si è, per così dire, autosospeso; e perché a dominare assolutamente alla televisione è il governo – valutazioni, iniziative, migliaia di  miliardi di dollari in distribuzione, conferenze stampa. Il governo; leggi Trump.

In tutta Europa, peraltro, il governo è al centro della scena. L’opposizione potrà certo spronarlo a fare di più o di meglio e contestare le sue scelte. Ma, a parte l’assai sospetto caso polacco, non ci sono appuntamenti elettorali alle porte. Mentre campeggiano sulla scena la minaccia esistenziale e il potere intento a fronteggiarla con tutti i mezzi possibili; ivi compresa la possibilità di intromettersi nella vita privata dei propri cittadini come se fossimo in tempo di guerra.

“Siamo in guerra”dice appunto Macron. E’ una manifestazione del suo protagonismo teatrale. Ma anche del fatto che, come si suol dire, “l’appetito vien mangiando”. Fino a sfociare, con Orban, con il raggiungimento dei pieni poteri, in ogni campo, senza controlli e senza limiti di tempo ( per ottenerli Hitler dovette negoziare con il partito cattolico; ad Orban è bastata la maggioranza assicuratagli da quelle leggi ultramaggioritarie che piacciono tanto a Salvini, Renzi e altri ancora). Ma anche con il manifestarsi, sia pure in forma attenuata, in altri paesi: dalla Francia ( utilizzando una legge votata ai tempi della guerra d’Algeria) alla Danimarca, dalla Norvegia alla Bulgaria sino alla Germania. Varia naturalmente la durata e la possibilità di controllo da parte del parlamento: così come i propositi iniziali ( accesso ai dati personali, divieto degli assembramenti di più di tre persone, possibilità di entrare nelle case delle persone sospette di essere malate e di trasferirle forzosamente in ospedale, pene da tre a cinque anni per chi dà informazioni false, per dare alcuni esempi) sono stati, in qualche caso, ridimensionati. Ma la tendenza è quella. Mentre la linea del Piave della resistenza è quella degli enti locali; non dei partiti e del Parlamento.

DARE I NUMERI

I dati sulla pandemia di cui disponiamo, che sono poi quelli in base ai quali i vari governi orientano la loro strategia di contenimento, sono chiaramente non dico falsi ma non veri; non foss’altro perché raccolti con modalità e strumenti diversi tra loro. Pure dobbiamo, dico dobbiamo tenerli per buoni. E per una serie di motivi. Perché i dati veri certamente  esistono ma nessuno è in grado di conoscerli. Perché il loro numero è di gran lunga superiore e, se ipoteticamente diffuso, creerebbe un vero e proprio panico tra le gente. E soprattutto perché dare il minimo spazio all’ipotesi  che essi siano stati o possano essere manipolati aprirebbe la strada a conflitti letali per l’ordine internazionale e per gli stessi rapporti  tra governanti e governati: fratture irrimediabili tra stati, ossessioni securitarie, cacce all’untore, chiusure e sospetti,  fake news e fake opinions, popolazioni fuori controllo.

Giusto, anzi più che giusto necessario tenere, difendere la diga. Essendo però che  questa, con il dilagare della stessa pandemia, rischia di franare in ogni momento.

Non mancano, al riguardo, i segni premonitori. Ieri quasi 1200 morti in un solo giorno negli USA. C’è la polemica sconsiderata, quanto motivata in termini di politica di potenza, tra Stati uniti e Cina, che è giunta a sfiorare l’accusa di guerra batteriologica ( polemica momentaneamente sospesa). E c’è, soprattutto nei paesi dell’Est, l’intento di condannare a pene detentive non solo chi diffonda notizie false ( ad avviso dei governi stessi) ma anche chi metta in dubbio le “verità ufficiali”. Mentre cresce un po’ dappertutto ( vedi Marine Le Pen) la tentazione di contestarle in radice.

Anche qui, siamo sull’orlo del baratro.

TRUMPISMO, FASE SUPREMA DEL CALVINISMO

Il Nostro ha cominciato col dire che l’epidemia non esisteva. Poi che non avrebbe toccato gli Stati Uniti. Poi che sarebbe finita presto. Poi che si trattava di una febbriciattola. Poi che i morti ci sarebbero stati ma che sarebbero stati appena ( ? ) centomila. Ora siamo arrivati ad un’ipotesi massima di 240 mila. Il tutto senza battere ciglio; con la borsa alle stelle e con una crescita di consensi nel paese che, intanto, non si mai, continua ad armarsi.

Certo, la crescita dell’economia vale bene uno o più funerali. Certo che centinaia di migliaia di morti sono nulla rispetto a 380 milioni di abitanti. Ma insomma…

Trump ed Orban. Esiste anche la Nato, ed è quella che ha le armi ...

 

 

 

 

 

 

 

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