I cascami dell’episteme occidentale

Visto il quadro sempre più deprimente offerto dall’evoluzione del mondo “fenomenico”, lo spirito (con la minuscola) cerca sollievo in quello ovattato delle idee: sto terminando la lettura del terzo volume dell’opera di Emanuele Severino dedicata alla filosofia occidentale, un dottissimo excursus che parte dal mito greco per giungere fin quasi ai giorni nostri.

Secondo Severino (1929-2020), uno dei massimi pensatori italiani del XX secolo, l’esigenza di filosofare nasce dal timor panico che afferra l’essere umano esposto alla furia del dileguare, cioè all’incessante processo di sviluppo, trasformazione, corruzione e dissoluzione che caratterizza la natura nella quale siamo immersi e di cui partecipiamo. Il pensiero si sforza disperatamente di individuare un punto fermo, un elemento di stabilità cui appigliarsi per attribuire un senso all’esistenza umana, altrimenti sballottata dal caso: la ricerca di una verità definitiva e incontrovertibile, oggetto dell’episteme, conduce però a molteplici ed incerti approdi, almeno fino a quando G.W.F. Hegel non elabora un sistema che, nella sua adamantina coerenza e grazie a un uso innovativo della dialettica, riesce a recepire al suo interno l’Io pensante e la realtà pensata, unificati in una definitiva sintesi di certezza e verità (tralasciamo l’aspetto non secondario che lo Spirito che “chiude il cerchio” è il vecchio Dio cristiano camuffato da entità immanente…).

Raggiunta la vetta si può soltanto ridiscendere: è a questo punto, afferma Severino, che le migliori intelligenze europee si avvedono che il rimedio – cioè l’episteme – si è rivelato peggiore del male, imprigionando il divenire in una ragnatela concettuale che paralizza il pensiero e l’azione umana e che, oltre a giustificare lo status quo (Hegel non è certo un eversore, anzi!), applica categorie immodificabili a un’umanità che sperimenta rapidissimi cambiamenti socio-economici. La pretesa di sistematicità viene contestata da filosofi del calibro di Schopenhauer e Nietzsche, che abbracciano – soprattutto il secondo – la causa del divenire, ma oltre che in autori successivi il retaggio epistemologico e sintetizzante sopravvive e prospera nella mentalità dell’élite “occidentale”, tesa ad imporre a proprio beneficio una chiave di lettura univoca dell’esistente. L’eurocentrismo è un prodotto della riflessione filosofica moderna e contemporanea: se è vero che l’Io ordinatore si identifica non con un Dio trascendente e nemmeno con il singolo individuo, bensì con l’essenza dell’Uomo (Feuerbach), questa umanità astratta non coincide d’altra parte con la generalità dei nostri simili, riducendosi all’insieme di coloro che, sin dall’alba dei tempi, si sono confrontati con l’angoscia del divenire – cioè agli euroccidentali plasmati dal pensiero greco-romano e capaci, più di ogni altra etnia, di intervenire progressivamente sulla natura per “domarla” e servirsene per i propri scopi. Non è probabilmente casuale che i nomi che incontriamo nei testi di filosofia per le scuole superiori appartengano, dal Medioevo in avanti, a pensatori germanici, britannici, francesi e italiani, né che siano stati gli anglosassoni (e con maggior timidezza i tedeschi) a rivendicare l’eredità del mondo classico e a presentarsi in armi agli altri popoli come “civilizzatori”: è il fardello autoassegnatosi da un uomo bianco che sbandiera tradizioni culturali e progresso scientifico come prove indiscusse della propria superiorità su “razze” votate all’immobilismo e pertanto inferiori. A confortare questa visione autoreferenziale, che quasi inevitabilmente trascende nel razzismo, interviene il lascito giudaico-cristiano, la persuasione mutuata dalla lettura della Bibbia di aver meritato una speciale benevolenza divina che non si estende alle altre popolazioni, arretrate se non primitive.

Alla brutale colonizzazione dell’Africa e delle Americhe, attuata senza scrupoli di coscienza, fa seguito nel Sette-Ottocento l’aggressione alle antiche e venerande civiltà asiatiche, la cui evoluzione si è arrestata da tempo e che, soprattutto, appaiono “soddisfatte di sé” e poco propense a esportare il loro modello nello spazio esterno: entrambe le c.d, guerre dell’oppio (1839-42 e 1856-60) sono scatenate in Cina dall’Impero Britannico, che approfitta della sua superiorità militare per massacrare e terrorizzare oltre misura la popolazione civile, ma nel contempo proclama la giustezza della propria causa addossando ogni responsabilità a un nemico infido, irrazionale e retrogrado – in definitiva: animalesco. A ben vedere l’atteggiamento dei politici e dei comandanti inglesi descritto dallo storico Sergio Valzania nel saggio sui due conflitti appena citati non è per nulla dissimile da quello attribuito, documenti alla mano, all’élite francese da F. Fejtő in “Requiem per un Impero defunto”, che tratta della Grande Guerra, né da quello tenuto dalla dirigenza dei Paesi NATO nelle guerre “coloniali” degli ultimi decenni e in quelle attualmente in corso in Ucraina e a Gaza: il disprezzo per le controparti è talmente violento e smaccato da instillare il dubbio che il razzismo quotidianamente denunciato da politici e media nostrani permei tuttora la coscienza di una classe dominante che, magari inconsapevolmente, ritiene di impersonare “il migliore dei mondi possibili” messo alla berlina da un Voltaire che, a sua volta, viene volentieri sfoggiato dagli occidentali (penso al celebre elogio della tolleranza affibbiatogli) a comprova di una pretesa supremazia etico-morale su coloro che non abitano il “giardino fiorito” di cui ciancia Josep Borrell.

A scanso di equivoci: non mi passa neanche per la mente di addebitare agli spiriti magni di Aristotele, Cartesio, Kant e compagnia bella la colpa dell’inguaribile bellicismo di un mondo sedicente libero (nei fini, vien voglia di chiosare) che rappresenta da qualche secolo a questa parte la più seria minaccia per la stabilità globale e la pacifica convivenza umana; rilevo però che l’indole speculativa e catalogatrice trasmessaci dai greci, combinata con lo spirito di intolleranza tipico delle fedi monoteiste, può aver senz’altro stimolato la competitività nei confronti di altri gruppi che, meno ossessionati di noi dall’incombenza del divenire e dalla necessità di trovare riparo da esso – o, all’opposto, di adeguarvisi, ci appaiono perciostesso un po’ meno “umani”, e dunque estranei (si consideri il giubilo espresso dai media italiani per la liberazione di quattro ostaggi israeliani al prezzo di oltre 200 vite palestinesi o il silenzio che avvolge gli effetti dei bombardamenti quotidiani con armi della NATO sugli abitati del Donbass e sui villaggi russi di confine).

In quanto pharmakon la dottrina può curare ed elevare l’anima, ma pure avvelenare le coscienze e renderle cieche e sorde.

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