Della traduzione cinematografica di Giacomo Leopardi.
L’impresa tentata era ardua: può la sintassi cinematografica “complessamente poetica” affrontare e mettere in immagini la sofferta poesia (“gelida e acosmica” secondo la stroncatura di don Benedetto Croce) di Giacomo Leopardi? Può quella evitare un “discorso sopra Leopardi”, un’interpretazione, ovvero una “meta-poesia”, una poetica impropria?
“Il giovane favoloso” è un capolavoro: perché riesce in questo intento di accompagnarci nella poesia e perché rinnova un modo realista di avvicinamento alla storia -biografica e collettiva-, con il rispetto sapiente del detto da altri.
Segnalo, per onestà, che ho un grande pregiudizio positivo nei confronti di Martone, del suo cinema che si confronta con la storia difficile d’Italia –via Napoli e ben dentro la “quistione meridionale”- ma che sa maneggiare strumenti “filologici” e “tecnici” in grado di avvicinarlo alla narrazione realista di Luchino Visconti e alla ricerca attorno all’ottocento dei fratelli Taviani. Insomma il cinema alto e civico, quello che pone prima l’oggetto che le smanie narcisistiche del regista, quello che ha la fissazione mistica del presente-reale da filmare e non la prospettiva filistea del botteghino, del premio, della benevolenza della corporazione. Questo spirito di servizio, questa posizione morale, d’altra parte è il presupposto affine che spiega l’empatia di Martone nell’accostarsi al delicato universo leopardiano.
Traduzione
“Il giovane favoloso” è un’attenta “traduzione” da una lingua ad un’altra. Traduzione arte decisiva e fondamento del concetto di umanità, come continuità, come eterno possibile rileggere se stessa, come autocoscienza pubblica. Boccaccio e Petrarca completano la traduzione latina dei poemi omerici e Vincenzo Monti quella in italiano, gli uni e l’altro avvieranno momenti di rinascita. Ancora nel 900 quando Cesare Pavese traduce “Moby Dick”, Achab ci viene incontro, ci investe della sua follia teologica. Il traduttore si pone in un dialogo di alienazione verso l’autore e di donazione verso il pubblico, in mezzo deve esserci la sua sapienza nutrita di conoscenze “storiche” e sensibilità – sensualità diremmo con il gran recanatese – “sociali”. Ad un certo punto del film c’è Giacomo che traduce versi omerici dell’Iliade e con decisione propone una soluzione semantica contro le cautele del padre Monaldo; più avanti sfida, da sensista qual è, l’insufficienza della pura filologia, come liturgia, a cui lo si voleva condannare nella carriera ecclesiastica.

Martone traduttore filmico di Leopardi che, a sua volta, è traduttore poetico della sua gabbia-biblioteca, cioè traduttore di una civiltà intera. Traduzioni, davanti la finestra aperta e assolata sull’angusto banco dove lo straordinario Elio Germano si arrotola nella sofferenza di far baciare la piazza del “Sabato” e del “dì di festa” e la finestra di Silvia con le cose eterne che andava leggendo. Sequenze iniziali, queste, di intenso contrasto connotativo tra la splendida biblioteca di Palazzo Leopardi dove sono ordinati i monumenti letterari e il deformarsi del corpo di Giacomo, traduttore verso l’esterno. Una foto forte del film è Giacomo accucciato su di un quaderno sul tavolo con lo sguardo fisso sulla penna (strumento traduttivo), schiacciato quasi da questo suo tentativo titanico di far dialogare la vita “bifolca” che passava “al di là” della finestra con l’erudizione “al di qua”, rappresentata, con ripetute sequenze, dal quieto e ortopedicamente composto leggere dei fratelli.
Dialettica paterna
