Sulla differenza fra eclettismo e dialettica.

Ho letto questo lungo e interessante articolo di Eros Barone https://www.sinistrainrete.info/marxismo/13031-eros-barone-dialettica-o-eclettismo.html e, pur non condividendo in diversi punti la sua analisi, lo ringrazio comunque per la brillante distinzione che opera (che invece condivido) fra eclettismo (che spesso sfocia nell’opportunismo) e dialettica.

Naturalmente sarebbero necessarie ben più di poche righe per motivare sia i punti di dissenso che di assenso, però, volendo sintetizzare fino all’inverosimile (e necessariamente a banalizzare) e limitandomi ai primi, mi sento di pronunciare queste poche parole.

Il punto non è tanto il “Marx + Freud” o il “Marx più Nietzsche” o il “Marx + vattelapesca” che ci può anche stare e ci sta, nel senso che è del tutto normale che tanti pensatori abbiano partorito delle idee valide o abbiano interpretato correttamente determinati fenomeni o aspetti della realtà. Così come, a mio modestissimo parere, ci sta ad esempio il fatto che Marx (o Engels) non abbiano approfondito alcuni aspetti del reale e della conoscenza, anche perché non erano dei semidei ma “solo” dei grandi pensatori (scienziati ma anche filosofi, a mio parere, anche se questa mia affermazione provocherà la reazione piccata di Eros…) che hanno dato un contributo fondamentale alla possibilità della conoscenza e soprattutto della trasformazione del mondo. Dal momento che abbiamo citato Freud, penso ad esempio alla sfera psicologica e psichica delle persone, che non è una realtà metafisica o iperuranica ma un fatto reale che appartiene alla realtà (e non può essere separata da quest’ultima), che né Marx né Engels indagarono. Questa mancata indagine che all’epoca in cui Marx ed Engels vivevano era del tutto giustificabile e comprensibile (quando si inchioda un essere umano per quattordici ore al giorno ad una catena di montaggio il problema del controllo della sua sfera psichica non si pone neanche perché tale controllo è già in essere…), oggi, sempre a mio modestissimo parere, non lo è più, perché la trasformazione della realtà (del lavoro, dell’organizzazione del lavoro, del tempo libero, delle classi sociali, dei rapporti e dei vincoli sociali e umani, della sessualità, del rapporto fra i sessi, della cultura e tante altre cose ancora…) e quindi del sistema e del dominio capitalistico è stata tale da imporre quell’indagine. Pensare di combattere efficacemente l’attuale dominio capitalistico senza indagare quell’ambito e quegli ambiti è come pensare di andare a vedere una partita di calcio osservando solo una metà del campo…

L’errore (sempre quando di errore si tratta e non di opportunismo…) è invece (ma questo Barone lo spiega efficacemente e su questo punto concordo con lui…) quello di confondere appunto la dialettica – che è in grado di interpretare e spiegare la complessità della realtà (che non è un’accozzaglia casuale di eventi altrettanto casuali ma appunto una relazione dialettica complessa a sua volta composta da una serie altrettanto complessa di relazioni dialettiche complesse che rimandano a loro volta ad altre relazioni) – con l’eclettismo, cioè il prendere di qua e di là più o meno a casaccio in base ai nostri desiderata o – nel caso degli opportunisti – a ciò che conviene, e a fare una sorta di minestrone (come lui stesso ha scritto “una somma aritmetica di verità parziali”) o di minestrina (nel caso ad esempio del cosiddetto “pensiero debole” attuale) che poi in ultima analisi finiscono sempre per portare acqua al relativismo assoluto e al nichilismo i quali, sempre in ultima analisi, servono a coprire e a giustificare ideologicamente il concetto in base alla quale il capitalismo non sarebbe una forma storica dell’agire umano ma una sorta di condizione ontologica, naturale, e quindi non trasformabile e non superabile alla quale ci si deve rassegnare.

Questo, a mio parere, l’errore di natura teoretica.

Alcune considerazioni su Preve, perché mi sembra che il giudizio che ne abbia tracciato Barone sia decisamente troppo duro e anche errato, addirittura comprendendolo fra quelle, cito testualmente “maschere carnevalesche, dotate, come tutte le maschere (e come tutti gli eclettici), di molteplici identità…”

Mi pare che Preve non abbia mai sostenuto che non esistano più le classi sociali o che non esistano più classi sociali dominanti e classi sociali dominate. Al contrario, Preve ha detto che queste classi sociali – dominanti e dominate – non possono più essere definite con i concetti “tradizionali” di borghesia e proletariato perchè queste ultime (prodotti della realtà, non certo dello spirito…) erano portatrici di una cultura, di una visione, di una ideologia e di un orizzonte alternativi e antagonisti del mondo e della realtà, mentre oggi quelle visioni, quelle culture e quegli orizzonti non esistono più. E non esistono più – aggiungo invece anche io sia pure più modestamente – perché la realtà è appunto cambiata, e quelle classi (con i loro portati “culturali”, valoriali” e ideologici), così come erano, non esistono più nelle forme che hanno assunto in quella determinata fase storica che – appunto – ha portato legittimamente a definirle con i termini di borghesia e proletariato. Il che non significa però che oggi non esistano classi sociali (capitaliste) dominanti e classi sociali subalterne e dominate (esistono eccome!!!), solo che per comprendere e analizzare al meglio la realtà è forse opportuno anche aggiornare il nostro linguaggio. Non per un vezzo intellettualistico ma perché ce lo richiede la realtà in costante mutamento. Del resto, anche prima della nascita del capitalismo esistevano classi sociali dominanti e classi sociali dominate ma non potevano essere definite, ovviamente, come borghesia e proletariato, perchè erano oggettivamente altro.

Ora, naturalmente, si dovrebbe aprire un dibattito enorme che riguarderebbe anche le complesse questioni relative alla semantica, al linguaggio (questione aperta dal nominalismo ben prima di Wittgenstein…) e alla loro relazione con la realtà (di cui fanno parte e da cui scaturiscono) ma ovviamente non lo apro anche perché non ne avrei le necessarie competenze.

Tuttavia, tornando con i piedi sulla terra, la questione esiste. Esempio concreto: è possibile definire come proletariato l’attuale massa popolare, ridotta ad un magma indistinto e omogeneizzato all’interno del quale si mescolano e si confondono vecchi strati sociali che una volta avremmo definito piccolo borghesi con settori operai che una volta avremmo legittimamente definito proletari?  Questa “massa popolare” del tutto priva di coscienza di classe se non purtroppo imbevuta di ideologia dominante, sradicata, omogeneizzata culturalmente e ideologicamente ma al contempo divisa e frammentata in mille rivoli, è definibile come “proletariato”?

Sul versante opposto, è possibile definire ancora con il termine “borghesia” una classe super capitalista transnazionale che ha di fatto dismesso i vecchi apparati valoriali-ideologici borghesi in ordine storico di apparizione (quello kantiano e poi anche e soprattutto quello hegeliano, comunque entrambi funzionali agli interessi della borghesia in determinate fasi storiche), che hanno culturalmente e ideologicamente caratterizzato il dominio borghese nelle diverse epoche, per adottare la nuova ideologia politicamente corretta post-moderna giudicata, non a torto, più funzionale a garantire l’attuale dominio capitalistico?

Fermo restando che anche e soprattutto l’attuale dominio capitalistico si fonda comunque sull’estrazione di plusvalore (che questa estrazione o espropriazione avvenga dal lavoro vivo o dal lavoro cosiddetto “morto”, non muta di una virgola la sostanza delle cose perché in ogni caso quel plusvalore non viene certo socialmente redistribuito…) e quindi sullo sfruttamento e sulla guerra imperialista (anche se ideologicamente giustificata in forme e modalità diverse rispetto a come era giustificata in altre epoche), penso che i processi di trasformazione avvenuti negli ultimi quarant’anni almeno, sia sotto il profilo sociale  che culturale/valoriale/ideologico/, necessitino di un adeguamento sia dal punto di vista dell’analisi che da quello semantico e linguistico.

Mi permetto di riproporre un paio di articoli (entrambi furono pubblicati su “Sinistra in Rete”) dove ho approfondito meglio i temi in oggetto:

https://www.linterferenza.info/editoriali/destra-e-sinistra/   e

https://www.linterferenza.info/attpol/la-nuova-falsa-coscienza-delloccidente-e-del-capitale/

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Foto: italiachecambia.org (da Google)

 

 

 

4 commenti per “Sulla differenza fra eclettismo e dialettica.

  1. Panda
    2 Settembre 2018 at 20:28

    E’ una discussione interessante e anche importante. Mi limito a qualche osservazione.

    Luporini definiva il marxismo “scienza dei condizionamenti”. E’ chiaro che strumenti che aiutino a mettere a fuoco altri tipi di condizionamento non possono che essere benvenuti.

    Su Preve il discorso è più complicato e secondo me il Barone ha le sue ragioni. Io credo che il punto fondamentale del dissenso riguardi l’importanza del Capitale nella produzione marxiana. Per l’autore, e si parva licet per me, è l’opera più importante di Marx; per Preve no.

    Le classi sociali nel Capitale vengono individuate al più elevato livello di astrazione possibile, quello delle forme sociali fondamentali: hanno quindi un significato logico-funzionale, non sociologico. Tirarne in ballo la cultura o l’ideologia è fuorviante. Se si vuol decretare l’obsolescenza del concetto di borghesia, bisognerebbe sostenere che quelle forme fondamentali sono cambiate ed esporre dialetticamente queste novità, cosa che, per quanto ne so, Preve non ha mai fatto. Se non si ha preventivamente uno schema generale di interpretazione della società si cade effettivamente nel soggettivismo (l’accusa di lorianismo è pertinente), cioè si decide soggettivamente quali sono gli elementi qualificanti che consentono di individuare continuità e discontinuità storiche (la cultura, o magari l’organizzazione tecnica della produzione, come fanno gli operaisti).

    Ovviamente il livello di astrazione del Capitale *non è* quello della politica e non è possibile ricavarne direttamente strategie. Pensare che basti studiare quelle elaborate per una società, a più bassi livelli di astrazione, assai diversa da quella attuale e riproporle nella loro purezza, sorvolando pure sulle molte questioni che si potrebbero sollevare (per esempio relativamente al marxismo di Lenin), mi pare una pia illusione . Come sbloccare questa situazione di apatia e impotenza del lavoro non lo sappiamo e faremmo molto bene a non autoilluderci di saperlo. Da questo punto di vista le analisi culturali e sociologiche acquistano un grande peso e Preve, per quanto mi riguarda, è tutt’altro che da buttare via.

    My two cents.

    • Armando
      3 Settembre 2018 at 15:34

      Al tempo de Il Capitale, la borghesia era la classe effettivamente proprietaria dej mezzi di produzione e il proletariato industriale, da distinguersi nettamente da altri ceti subalterni ( sottoproletariato, piccola borghesia impiegatizia, kavoratori improduttivi in genere), era la classe portatrice per eccellenza della contraddizione fra capitale e lavoro. Ma già all’epoca con l’avvento della società per azioni Engels si spinse a ipotizzare un capitalismo da un lato di funzionari, dall’altro di rentiers staccatori di cedole. Sull’altro lato la progressiva scomparsa nei paesi occidentali avanzati delle grandi fabbriche industrali, centri non solo di estrazione di plusvalore ma anche di aggregazuone fisica di classe, hanno effettivamente, a mio parere, spostato la questione. I rapporti di classe con connesso sfruttamento ovviamente rimamgono, e le disuguaglianze addirittura aumentano, ma si collocano su un piano diverso e nefessitano di strumenti di analisi differenti. Ragionare in astratto x ritrovare la stessa situazione di 150 anni orsono non aiuta. E fa diventare Marx come il Corano dove tutto é già scritto.

      • Panda
        3 Settembre 2018 at 20:20

        Gli esempi storici relativi alla grande industria contenuti nel primo libro del Capitale hanno un valore esemplificativo e niente di più: “nell’analisi delle forme economiche non servono né il microscopio, né i reagenti chimici: la forza dell’astrazione deve sostituire l’uno e gli altri.” La forza e il valore, anche previsionale, dell’opera stanno proprio nella sua capacità di astrazione dalla contingenza storica.

        La questione della finanza e del capitale fittizio (altra categoria marxiana ancora attualissima. Vd. per esempio: http://www.lesprairiesordinaires.com/le-capital-fictif.html ) si collocano a un livello di astrazione più basso delle categorie fondamentali, in particolare quella della forma denaro, ma le presuppongono. Senza di esse diventa assai difficile capire la provenienza del profitto finanziario. Se poi vuoi dire che il III libro, dove appunto si analizzano credito e finanza, è incompleto e insufficiente, siamo perfettamente d’accordo (ma era d’accordo pure Marx, che non l’aveva pubblicato). Si tratta però di proseguire, non di buttare via.

        Però, Armando, l’individuazione delle strutture sociali fondamentali è in realtà l’unico approccio veramente non dogmatico, perché consente di evitare il soggettivismo senza naturalizzare alcunché.

        Fammi citare Pannekoek, che su questo mi pare molto chiaro: “la filosofia borghese trova la fonte della conoscenza nella congettura personale, il marxismo nel lavoro sociale. Tutta la coscienza, tutta la vita spirituale dell’uomo, anche quella dell’eremita più solitario, è un prodotto collettivo, è stata formata e modellata dalla comunità lavoratrice degli uomini. Anche se ha la forma della coscienza personale, perché ogni uomo è un essere biologico singolo, può esistere solo come parte del tutt’uno. In questo modo gli uomini possono avere le loro esperienze solo come esseri collettivi. Le esperienze non sono qualche cosa di personale, anche se le diversità contenutistiche corrispondono a diversità personali. Le esperienze sono a priori qualche cosa di trascendentale, in cui la società è già presupposta come ovvia in quanto base indispensabile.”

        Se non svolgi preliminarmente quest’opera di “criticismo sociale” finisci per cadere in una qualche forma di soggettivismo quando analizzi la portata di (presunte) novità (es.: come fai a dire, in un modo non apodittico e controllabile, se le forme sociali fondamentali sono ancora quelle di 150 oppure no se non ne hai prima individuato ed esposto la struttura?), dando dogmaticamente per scontate le forme di pensiero con cui lavori.

        Questo non vuol dire affatto che in Marx ci sia già tutto, proprio il contrario: ho detto subito che una politica non è possibile ricavarla direttamente e posso anche aggiungere che lo stesso Capitale è un torso. Ma rimane uno strumento e una guida metodologica insostituibile.

      • antonio
        3 Settembre 2018 at 22:47

        giusto.
        aggiungo che con le lotte, e l’aumento dei salari al di sopra del livello di sussistenza, i proletari hanno potuto risparmiare e diventare proprietari di case, conti bancari, investimenti… sono diventati anche piccoli capitalisti.
        oggi le imprese sono tutte straindebitate, lavorano coi soldi altrui, di chi? dei lavoratori. fondi comuni e fondi d’investimento forniscono il capitale, dei lavoratori, alle imprese.
        quindi sarebbe il caso di CANCELLARE certe terminologie per non inimicarsi il 95% della gente

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