Qualche cenno sui populismi

E’ estremamente difficile dare una definizione corretta e politicamente neutrale del termine “populismo”. Generalmente, le definizioni ufficiali scontano il prezzo dell’ufficialità, e quindi non tutt’altro che neutre. In termini storici, guardando ad esempi (peraltro diversi fra loro) come il populismo russo di fine XIX Secolo, il populismo statunitense dei primi anni del Ventesimo Secolo, il peronismo, i populismi attuali (etichettati “di destra”, anche se tale etichetta è imprecisa, come dirò oltre) emergono alcuni elementi molto generali comuni, peraltro presenti con intensità diverse, ed anche sfaccettature differenti:

– La tendenza alla costruzione di un rapporto diretto fra il leader ed il popolo, non intermediato, o intermediato solo debolmente, da un apparato partitico forte ed in qualche modo autonomo rispetto al leader. Ci sono però sfaccettature diverse in tale definizione. Ad esempio, il partito giustizialista argentino, costruito inizialmente da Perón come mera cassa di risonanza della sua leadership personale (tanto che nel corpo dottrinario originario del giustizialismo vi è un esplicito divieto alla formazione di fazioni interne ed al caudillismo), assume con il tempo le caratteristiche di un partito solidamente inscritto dentro il tessuto sociale del suo Paese, con differenziazioni ideologiche estremamente forti. Similmente, il “populist party” statunitense era un partito vero e proprio, nel quale non vi era l’egemonia di uno specifico leader sull’organizzazione partitica, ma in un certo senso la seconda prevaleva sui primi. Viceversa, nel populismo russo, ad un certo punto, Zemlija Volia si scinde fra i “rurali” ed i “politici”, questi ultimi, tra l’altro, favorevoli ad una maggiore strutturazione organizzativa del movimento (dalle loro ceneri nasceranno anche molte delle tesi, e parte del personale politico, del futuro partito dei socialisti rivoluzionari);

– A volte una credenza di base sulla “saggezza” delle masse, per cui il programma politico è fluido, venendo a dipendere dai moti spontanei dell’opinione pubblica. Questo elemento è chiaramente presente nel M5S dove, su una base programmatica molto scarna e generica basata su concetti generali (ambientalismo, lotta alla corruzione, ecc.) si innestano tematiche legate all’interazione in rete con la base, filtrate dal sistema informativo Rousseau, e quindi spesso caratterizzate da una certa “mobilità” (si pensi al tema euro/no euro, spesso oscillante in modo molto evidente). Tale credenza era invece forte nei populismi russi, spesso imbevuti di ideologie anarchiche (soprattutto derivanti da Bakunin e Kropotkin). Talvolta (si pensi al trumpismo, ma anche al grillismo, spesso accusato di fare consultazioni popolari soltanto apparenti) tale elemento di “immersione” nella massa è meramente formale, e pressoché inesistente;

– come riflesso della tendenza ad “andare verso il popolo”, spesso, ma non sempre, si sviluppa una retorica anti-casta ed anti-élite, che non di rado sfocia, nei populismi che si colorano di sinistra, in un atteggiamento anti-egemonico, che nega il ruolo del partito come “banditore di una riforma intellettuale e morale della società” (Gramsci). Per questo, ad esempio, Iglesias, leader di Podemos, ritiene che il partito politico tradizionale sia una forma politica esausta ed incapace di rappresentare una società percepita non più come verticale e conflittuale, ma come reticolare, orizzontale e portata a forme di “coopetizione”, dove la lotta di classe si affianca al dialogo sociale tramite la rete. Ciò porta all’idea di una destrutturazione delle forme tradizionali di egemonia del partito-principe, in una inversione dell’ordine dei fattori secondo la quale l’egemonia viene portata dal popolo verso i dirigenti politici, che devono quindi trincerarsi in una posizione di ascolto e di disponibilità a farsi guidare. Di fatto, questo tratto specifico fa sì che la gran parte dei movimenti siano in qualche modo classificabili nel populismo, dal motto zapatista del “mandar obedeciendo”, in cui il dirigente politico è un mero attore della volontà delle masse, al “Gramsci is dead” lanciato dai movimenti no global, si destruttura la capacità di sedimentazione culturale e di analisi del partito, si nega alla radice la funzione di guida politica della sua élite.

Quello che non ha senso, in realtà, e che è una semplificazione di comodo, è la classificazione del populismo nelle categorie di destra o di sinistra. Per sua natura, il populismo non sedimenta cultura politica, ma si muove inerzialmente secondo gli andamenti dei gruppi sociali cui vuole dare rappresentazione, senza filtrare la loro domanda sociale, quindi non può assumere in toto tratti di sinistra o di destra. E’ per questo che si fatica inutilmente a collocare il M5S a destra o a sinistra, perché di fatto rappresenta posizioni tipiche di ambedue le parti politiche, in funzione di come si muove il suo elettorato. O che è sciocco classificare a destra il Front National francese, ammesso e non concesso che il FN possa considerarsi un populismo in senso stretto, secondo le definizioni sopra espresse. Se qualcuno da sinistra si fosse preso la briga, prima di strillare “al lupo al lupo”, di leggere il programma elettorale della Le Pen, vi avrebbe trovato cose come la difesa della scuola e della sanità pubblica, l’abbassamento delle aliquote fiscali per i redditi più bassi, politiche di contrasto alla povertà, che sono tipiche della sinistra (ovviamente tralascio gli stupidi che classificano il FN nel neofascismo, il fascismo è esattamente il contrario del populismo, perché sottomette il popolo ad un concetto sacralizzato di Stato, organizzandolo corporativamente, quindi azzerandolo dentro blocchi social-burocratici rigidi, tutt’al più utilizzando una dialettica di tipo plebeista). Lo stesso potrebbe dirsi del trumpismo, che mescola elementi di destra, come l’azzeramento dello stato sociale ed il militarismo, e di sinistra, come una visione per certi versi keynesiana del ruolo degli investimenti pubblici, o la difesa del tessuto manifatturiero e dei relativi posti di lavoro. Non parliamo poi del peronismo, che ha dato adito alle più svariate interpretazioni, dal fascismo sociale alla destra liberista di Menem alla socialdemocrazia radicale del kirchnerismo, fino a letture di estrema sinistra e rivoluzionarie. Il Populist Party statunitense, in alcune fasi, degradò verso il razzismo nei confronti dei neri, pur supportando una proposta politica di tipo socialista.

Di fatto un imprinting chiaro ed unilaterale, di destra o sinistra, è più l’eccezione che la regola dei populismi. Una eccezione è Podemos, che però per sostenere la sua proposta chiaramente di sinistra si sta strutturando come un partito tradizionale, abbandonando la vecchia logica movimentista ed attenuando la retorica anti-casta, che sinora gli ha impedito di costruire alleanze politiche stabili e generalizzate. Quindi in qualche modo sta uscendo dalla logica populista. Francamente ci sarebbe da chiedersi quanto l’idolatria della piccola comunità autogestita, che anima tanti movimenti, non attinga in parte anche dal concetto delle piccole patrie tipico di dottrine della Nouvelle Droite o dei sovranismi di destra.

Alcune cose sono però chiare: una prima questione storica è che sembra che i Paesi che non riescono a riassorbire i loro populismi dentro una proposta politica più strutturata ne finiscano vittime. E’ il caso dell’Argentina, ipnotizzata dall’interminabile sogno peronista, che peraltro ha diserbato qualsiasi serio tentativo di costruzione di partiti di sinistra a radicamento di massa e non minoritari. Per certi versi è il caso dell’Italia, che non riesce a venire a capo del qualunquismo (peraltro un populismo a forte matrice liberista ed antistatalista), che riappare ad intervalli regolari nella sua vita politica. Sono i Paesi che per motivi storici e di cultura politica non riescono (o non riescono più, in una certa fase della loro storia) ad esprimere una proposta politica solida e strutturata, tramite gli organismi di rappresentanza intermedia, soccombendo alla facile sirena della partecipazione diretta. I populismi, infatti, di per sé, non sono fenomeni necessariamente negativi, nella misura in cui “danno la sveglia” alla politica tradizionale, segnalandole ciò che bolle nello stomaco profondo del popolo, quando questa se ne è troppo allontanata. Quando sono riassorbiti, danno luogo a progressi di cultura politica. I populismi russi hanno creato le basi politiche e culturali per la Rivoluzione di ottobre. Il Populist Party statunitense ha parlato di blocco delle attività speculative delle banche, di nazionalizzazione delle ferrovie e di sussidi all’agricoltura ben prima che Roosevelt proponesse il New Deal.

Se però non vengono riassorbiti, i populismi degenerano. Non vengono riassorbiti, ad esempio, perché, come nel caso italiano, vi è una sinistra collaborazionista di piccoli burocrati che cercano di mettere al caldo il deretano, pronti a starnazzare contro il pericolo populista insieme alle peggiori destre neoliberiste, ed incapaci di apprendere la lezione gramsciana secondo la quale il partito deve stare dentro ed accanto le lotte popolari e di classe, non lontano a discettare di massimi sistemi nei palazzi, a beneficio di dirigenti mediocri e radicalchic. Quando un populismo degenera, sono guai. Il rapporto quasi mistico che il leader intrattiene con le folle, a lungo andare, produce effetti autoritari, il disprezzo per le élite e le caste si trasforma in antiparlamentarismo ed antisindacalismo, la credenza semi-religiosa in una verità profonda custodita nella pancia delle masse produce una tendenza politica interclassista e, nel peggiore dei casi, rigurgiti di caos e violenza.

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Fonte foto: altreinfo.org

 

 

4 commenti per “Qualche cenno sui populismi

  1. armando
    2 marzo 2017 at 14:37

    trovo interessante che il populismo non venga etichettato come maschera della destra o neofascismo strisciante, ma che si guardi ai programmi come nel caso del FN o anche di Trump. Ancor più che da ciò derivi il fatto che le categorie di dx e sx sono troppo strette per catalogare il fenomeno. Proprio in questi giorni su radio Radicale si ricorda che al primo loro ingresso nel parlamento italiano (1976) , si scontrarono con l’allora PCI perché Pannella volle sedersi all’estrema sinistra dell’emiciclo in coerenza con la nascita del termine sinistra che, all’epoca della rivoluzione francese, fu appannaggio della borghesia rivoluzionaria e, appunto, radicale. Nulla a che fare col movimento socialista ed operaio, come troppo spesso si dimentica. Detto questo il concetti di populismo non può non richiamare quello di popolo. E allora la domanda è “Cosa è il popolo?”. “da cosa viene definito?”. Mi sembra evidente che quel concetto solo parzialmente si sovrappone a quello di classe, rimandando invece a usi, tradizioni, costumi, credenze religiose, “filosofiche”, sedimentatesi nel tempo, ed anche a origini più o meno mitiche, più o meno storiche, ma che comunque hanno un loro valore simbolico ed esercitano una funzione di coesione comunitaria. La quale non esclude certo il conflitto ma evita che diventi dissolutorio di ogni legame sociale. Esiste, è vero, un pericolo: che il concetto di popolo degeneri in una chiusura su se stessi, di rifiuto degli altri popoli o peggio in forme di razzismo etnico. Ma sta alla funzione di una politica alta che ciò non accada. La soluzione non può essere quella di rifiutare il concetto stesso, perché così facendo si ripiega inevitabilmente sull’atomismo individualistico e borghese, ed anche sull’utilitarismo in versione “interesse di classe”.. La storia dei tentativi rivoluzionari del novecento dimostra che l’interesse di classe non è elemento sufficiente a evitare le degenerazioni e la dissoluzione di quei tentativi.

    • luca massimo climati
      5 marzo 2017 at 5:24

      Ottimo commento Armando.

    • Fabrizio Marchi
      5 marzo 2017 at 8:10

      “Esiste, è vero, un pericolo: che il concetto di popolo degeneri in una chiusura su se stessi, di rifiuto degli altri popoli o peggio in forme di razzismo etnico. Ma sta alla funzione di una politica alta che ciò non accada”. (Armando)
      Si, ma il punto è proprio questo, Armando, e cioè che il populismo molto spesso, se non quasi sempre, per lo meno nelle sue versioni europee (ma non solo, pensiamo oggi a Trump e ieri a Peron) assume quell’aspetto che tu stesso hai descritto.
      Naturalmente, come ben sappiamo, quel populismo lì cresce esponenzialmente e si alimenta proprio in virtù o a causa dell’assenza di una Sinistra di classe autentica, radicata e robusta. (uso il termine Sinistra nel senso più alto del termine, ovviamente, così come classe in senso gramsciano, che cioè non si preclude ottusamente ad una prospettiva di alleanza sociale più ampia dove però il baricentro è appunto costituito dalle classi lavoratrici e da una forte coscienza di classe). Se esistesse quella Sinistra il neo populismo di destra fondamentalmente xenofobo, razzista e nazionalista in senso reazionario, sarebbe un fenomeno sicuramente circoscritto e minoritario.
      Quindi si tratta oggi di costruire quella Politica alta per non consegnare le masse a quel populismo che è effettivamente razzista, reazionario (nel senso che è la reazione al sistema capitalista ideologicamente declinato in senso politically correct) e quindi in una certa misura anche neo-fascista. Naturalmente non è affatto un fenomeno rivoluzionario. Al contrario, è appunto un fenomeno reazionario che non mette affatto in discussione l’ordine sociale (capitalista) ma che si propone di guidarlo secondo le sue concezioni.
      Lo stato nazione che hanno in mente i neo populisti di destra non è la stato nazione multietnico e multiconfessionale, come era ad esempio la Siria dove convivevano serenamente circa 23 etnie e confessioni religiose diverse (scusate se è poco..) , ma appunto uno stato nazione fondato sulla corrispondenza o sulla sovrapposizione fra identità etnica e statuale-nazionale (quindi uno stato-nazione intrinsecamente se non esplicitamente razzista).
      Ora, naturalmente, come sostiene anche Carlo Formenti e anche noi, si tratta di prosciugare quel brodo di coltura dove il neo populismo di destra prolifera. Il problema è che rischia di essere tardi e forse già è tardi perché non possiamo che registrare l’assenza di una Sinistra in grado di fare questo lavoro. Del resto, se ci fosse stata non saremmo in questa situazione, e quindi il cane si morde la coda.
      Vi basti pensare che per mercoledì 8 marzo è stato promosso uno sciopero delle donne, una kermesse sessista a cui hanno aderito anche organizzazioni comuniste. Come si può pensare di poter fare quel lavoro di cui sopra con gente che non ha capito o si ostina a non capire che è proprio quella roba lì che ha spinto tanta gente a cadere nelle braccia del populismo di destra, che si ostina a non capire che il neo populismo è il prodotto dell’ideologia politicamente corretta? Fortunatamente, leggo con soddisfazione, che la FIOM non ha aderito. Vi propongo questo incredibile articolo di Contropiano, giornale della Rete dei Comunisti, dove ho tanti amici e compagni seri, che invece di solidarizzare stigmatizza la decisione della FIOM di non aderire allo sciopero. Siamo alla frutta come si suol dire…
      http://contropiano.org/news/aggiornamenti-in-breve/italia/2017/03/03/la-fiom-non-aderisce-allo-sciopero-delle-donne-l8-marzo-089523

  2. armando
    6 marzo 2017 at 15:27

    Per punti iniziando dall’ultimo: credo sarebbe ora di capire e scrivere a chiare lettere che la parte assolutamente maggioritaria della sinistra sedicente antagonista e anticapitalista è definitivamente perduta. Il sui orizzonte è ormai integralmente dentro la logica del capitale, la sua visione integralmente ristretta entro i fuorvianti e falsi perimetri culturali dettati dal capitale e per questo integralmente ad esso funzionali. Se non l’hanno ancora capito è certissimo che non lo capiranno mai più. Che bollano nel brodo loro preparato da George Soros e compagnia.
    Discorso molto più serio e articolato è invece quello sul populismo e sulle classi. Voglio essere sincero e, spero, chiaro. Non credo che si possa costruire una politica alta semplicemente sul concetto di classe, inteso sia come classe in sé che per sé. Sulla classe per sé credi di poter dire che siamo d’accordo nel ritenere di vivere in un tempo dove quel concetto è abbastanza (eufemismo) sbiadito. Tuttavia non credo dipenda semplicemente dal fatto che non esiste più una “sinistra” seria (uso il virgolettato perché, come ho scritto nel primo commento, l’uso del termine sinistra è equivoco in sé. Meglio sarebbe parlare di comunismo rivoluzionario o espressioni equivalenti, lasciando il termine sinistra la suo destino che è segnato). Credo invece che il problema sia più all’origine, ovvero al concetto di classe in sé, alla sua determinazione rispetto alla proprietà (disponibilità/controllo) o meno dei mezzi di produzione e quindi ai correlati rapporti. Il punto è che, anche nelle versioni non meccanicistiche, rimane tuttavia un equivoco che la storia del novecento e delle sue rivoluzioni fallite ha messo in evidenza. Una classe così definita non riesce ad ergersi “sopra se stessa” formando un “popolo”, che necessita anche di molto altro non necessariamente attingibile ai soli rapporti di produzione. E’ su questo “altro” che si sono registrati i fallimenti più clamorosi, ma questo in ultima analisi è imputabile anche a Marx (sia pure considerando quel Marx che tentò per accenni di “superare” se stesso). Ciò coinvolge anche l’encomiabile, per molto aspetti ma non per tutti, libro di Formenti sui populismi. A mio parere, per quel che vale, se non si rivisitano certe concezioni teoriche, anche l’anticapitalismo meglio intenzionato è destinato a interrogarsi perennemente sul perché non riesce a divenite davvero maggioritario in seno, appunto, al popolo.

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