L’Internazionale, un inno che non si canta più

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L’Internazionale è un inno che è stato scritto nel 1871, all’indomani della fine tragica della Comune di Parigi e musicato nel 1888, in vista del primo congresso della Seconda internazionale.

E’ dunque, un inno che si rivolge a tutti perché abbraccia tutti: da coloro che hanno voluto, contro ogni speranza, vivere un’esperienza socialista fino a coloro che la proiettano al termine di un lungo cammino. Lo canteranno tutti i sognatori regolarmente schiacciati dai difensori dell’ordine costituito: dagli scioperanti vittime di piccoli e grandi massacri quotidiani, ai proletari chiamati ad uccidersi l’un l’altro durante l’inutile strage del ‘14/18; dai marinai di Kronstadt sino ai vinti della guerra civile spagnola. Ma lo canteranno anche i partiti della seconda e della terza internazionale, separatamente ma anche insieme  all’epoca dei fronti popolari.

E’ in questo senso, un richiamo all’unità. Reso credibile dal fatto che non appartiene a nessuno; che sia uno stato, un partito o una combinazione dell’uno e dell’altro. Perché l’orizzonte, il futuro da conquistare appartiene a tutti e potrà essere realizzato solo con il concorso di tutti.

E’ però, detto  in altro modo, il rifiuto di qualsiasi salvatore disceso dall’alto. “Il n’ya pas de sauveur supreme; ni Dieu, ni Cesar, ni tribun”. Queste le parole dell’inno. Possiamo interpretarle, se siamo in vena polemica, come un elogio della spontaneità contrapposta all’organizzazione o dei movimenti rispetto ai partiti. Ma possiamo anche, anzi dobbiamo, esaltarle nel loro messaggio unitario: come constatazione del fatto che il riscatto dei lavoratori dovrà essere opera dei lavoratori stessi. E che, conseguentemente, i partiti politici non sono i padroni ma i servitori di questo processo. Cosa che aveva capito, anzi sentito nel profondo il nostro Marx che non scrisse mai un testo sul “ che cos’è il socialismo e come realizzarlo” mentre esaltò, contro tutto e contro tutti, il valore profondo della rivolta del proletariato di Parigi.

Oggi, mi si dirà, l’Internazionale non si canta più. E non in virtù di una specifica decisione. Ma semplicemente perché è passata di moda, come la cravatta; per non dire che si considera come una reliquia imbarazzante di un passato remoto. O meglio come parte , come lingua morta, di un universo che non c’è più. Se non ci sono più né il comunismo, né il socialismo, né il proletariato che senso ha riproporre vecchi riti ? Molto meglio, allora, rivolgersi al cantante di turno oppure cantare l’inno di Mameli che è bruttissimo ma non fa male a nessuno.

Pure le sue note e le sue parole continuano a risuonare e a commuoverci nel profondo ( le ho sentite al congresso fondativo di Risorgimento socialista). E non perché pronunciate da sacerdoti custodi della fiammella. Ma perché ci ripropongono l’attualità di un mondo, di un messaggio, e di una prospettiva; e la necessità di porci al suo servizio.

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