Partiti ridotti a scendiletto

L’affidamento del controllo del Recovery Plan a una società privata americana di consulenza, la Mckinsey, ha suscitato qualche timido rimbrotto in alcuni (pochi) esponenti della maggioranza di governo, composta ormai dalla totalità delle forze politiche con l’eccezione della finta opposizione di Sua Maestà; mi riferisco, ovviamente, al FdI di Giorgia Meloni.

Ma, come dicevo, si tratta solo di qualche mal di pancia personale. Nessuna forza politica oserebbe schierarsi apertamente contro il “Lider Maximo”. Tutt’al più qualche consiglio, senza nessuna pretesa di poterlo condizionare ma solo di farsi notare e benvolere.

Al di là della funzione che questa società di consulenza sarà chiamata concretamente a svolgere, la decisione di affidargli il controllo e l’elaborazione del Recovery Fund è un vero e proprio sputo in faccia ai partiti, alla classe politica e anche a quella amministrativa oltre che, naturalmente, al popolo italiano e alla democrazia, non solo formale ma sostanziale.

Il messaggio alle forze politiche (ma anche al management pubblico del Paese) è molto chiaro:” Non contate nulla, non siete buoni a nulla, non avete nessuna voce in capitolo su nulla e la vostra unica funzione è quella di ratificare le decisioni prese dal Sovrano”. Che non è il popolo, ovviamente, ma l’Unione Europea – o meglio il capitale finanziario (e non solo) europeo di cui l’UE è l’espressione politica – per la quale il Presidente del Consiglio è una sorta di proconsole e anche parecchio di più, trattandosi di uno dei suoi più autorevoli rappresentanti.

Mai nella storia della Repubblica i partiti erano scesi così in basso, ridotti a veri e propri scendiletto. Ormai le cose sono chiare: quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare, dice il proverbio. Tradotto, si lasciano giocherellare i partiti finchè la situazione è gestibile, quando non lo è più vengono messi da parte come si fa con i soldatini con cui giocano i bambini. Era già successo con Monti, si sta ripetendo ora con Draghi. Con la differenza che oggi siamo in una fase ancora diversa e il cambiamento di paradigma rischia di diventare definitivo, tutt’al più con qualche aggiustamento. Ma la sostanza è la stessa. I parlamenti, i partiti, che dovrebbe rappresentare la volontà popolare, sono completamente fuori gioco. Possiamo dire, da un certo punto di vista e senza timore di esagerare, che siamo tornati ad una fase storica addirittura pre-giolittiana.

E’ in questo quadro che vanno letti, a mio parere, alcuni sommovimenti interni ai vari partiti, in particolare al PD, alla Lega e anche al M5S. Le dimissioni di Zingaretti non sono da ascrivere alle motivazioni da lui stesso ufficialmente addotte. Figuriamoci se un esperto mestierante della politica e dei giochi e contro giochi di palazzo come lui si fa condizionare da questo o quell’avversario o cordata interna che vogliono farlo fuori. La mia opinione è piuttosto che abbia “odorato” la nuova fase – lo conosco personalmente, è “trasparente” dal punto di vista dei contenuti e privo di carisma ma non è uno stupido – e abbia scelto di chiamarsi fuori per non farsi lentamente e inesorabilmente consumare fino a sparire. Per cui meglio chiamarsi fuori oggi che lasciarsi lentamente morire. Un sacrificio accompagnato da un gesto anche abbastanza plateale di rottura in politica può portare dei vantaggi in prospettiva. Continuare a fare lo yes man di Draghi lo avrebbe inesorabilmente logorato, bruciato. In fondo – almeno questa in una gestione del partito a dir poco anonima – è stata una decisione intelligente. Sa che nel PD ci sono ancora settori legati al vecchio partito (penso al PDS e poi ai DS) con i quali ha ancora un rapporto abbastanza solido. Quei settori che oggi si sentono marginalizzati dal nuovo corso e che vorrebbero tornare ad avere un ruolo. E’ su questi che punta il “nostro” e dal suo punto di vista fa bene.

Per la Lega il discorso è diverso su un piano ma del tutto simile su un altro. E’ evidente che con la svolta “europeista” di pieno e totale appoggio al governo Draghi, Salvini non conta più nulla, è ridotto al rango di guitto, peraltro sempre meno visibile e con sempre minore libertà di movimento e di pubblica dichiarazione. Il vero uomo forte della Lega è Giorgetti (seguito dal governatore del Veneto, Zaia), uno dei fedelissimi di Draghi, e Salvini ne è, naturalmente, perfettamente consapevole. Accetta il suo ruolo né potrebbe fare altrimenti, sperando in tempi migliori. Il dato politicamente rilevante è che è crollato definitivamente, e anche abbastanza miseramente, il “mito” della Lega come forza populista, sovranista e “antisistema”.

Stesso identico discorso per il M5S, “partito moderato e liberale”, per usare le stesse parole di Di Maio, una mezza cartuccia miracolata dagli eventi a lui favorevoli (nella vita esiste anche la fortuna, così come il caso, ed entrambi fanno parte della realtà…) e preferito fra gli altri dal suo creatore, cioè Beppe Grillo, proprio perché privo di autonomia e personalità politica e quindi completamente manovrabile. Del resto, chi è stato miracolato come lui si guarda bene dal prendere iniziative personali. Per quanto riguarda il suo santo protettore nonché padre putativo e creatore, cioè Beppe Grillo, sarebbe interessante (si fa per dire…) riascoltare le balle che ha raccontato, o meglio urlato, per anni alla gente nei suoi comizi. Ma lasciamo perdere, il tutto si commenta da solo…

Della compagine di ministri e sottosegretari dell’attuale governo c’è ben poco da dire. Si dividono tra fedelissimi di Draghi, un po’ di mestieranti e vecchi arnesi della politica (con la p minuscola) più uno stuolo di nani (e nane) e ballerine al seguito.

Del resto, il Re non ha bisogno di una classe politica di livello, ma solo di una corte. I suoi veri consiglieri stanno altrove.

Tutti in Umbria! Conte, Zingaretti, Di Maio a Narni. Salvini, Meloni e  Berlusconi a Terni, ma in piazze diverse - Open

Fonte foto: Open (da Google)

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