Intervista a Massimiliano Ay, Segretario del Partito Comunista della Svizzera (PCS) di ritorno dalla Cina, a cura di Stefano Zecchinelli
1. Il Partito Comunista Cinese (PCC), unitariamente ai Partiti comunisti austriaco e tedesco, ha chiesto d’incontrare il Partito Comunista della Svizzera (PCS). Qual è la posizione dei marxisti, in Cina, su quanto concerne la guerra in Ucraina (conflitto lanciato dai neoconservatori USA contro l’Eurasia) e la politica dei dazi di Donald Trump? Donald Trump rappresenta, in ultimissima istanza, un tentativo di salvare l’eccezionalismo statunitense davanti all’inevitabile transizione ad un mondo multipolare?
Non
sono evidentemente titolato a parlare a nome dei comunisti cinesi circa le loro
posizioni e sono tenuto al riserbo anche per quanto concerne le riunioni con i
vice-ministri del Dipartimento Internazionale del Comitato Centrale del Partito
Comunista Cinese (IDCPC) che abbiamo incontrato sia a Pechino sia a Chongqing:
posso solo dire che il PCC capisce le necessità di sicurezza di Mosca e,
infatti, quella fra Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese appare come
un’alleanza non solo strategica ma oserei quasi definire “monolitica”, tanto
che ovunque, persino durante le visite alle aziende di punta che ho potuto
effettuare, la vicinanza fra questi due Paesi viene evidenziata con orgoglio.
In secondo luogo la politica dei dazi iniziata da Trump è stata più volte
sollevata nelle riunioni a cui ho partecipato con l’IDCPC: è evidente che la
Cina è preoccupata per la sua economia molto globalizzata e, di fronte al
protezionismo di Trump, Pechino gioca con intelligenza nelle contraddizioni
inter-imperialiste che si stanno sviluppando nel sistema atlantico, aprendosi a
una più ampia cooperazione in questa fase con l’Unione Europea e la Svizzera,
proprio nell’ottica di favorire il multipolarismo. Negli ultimi due anni sono
stato quattro volte in Cina e il concetto di “multipolarismo”, che il mio
Partito utilizza come categoria analitica da un decennio, era inizialmente
usato di rado da parte cinese nelle riunioni di lavoro: ora invece è
esplicitamente indicato come dato di realtà e prospettiva. A tratti nei
compagni cinesi, e sono questioni che noi spieghiamo loro apertamente nel
rispetto della reciproca indipendenza, vi è forse una eccessiva fiducia
sull’Europa, questo anche perché partiti come la LINKE tedesca si ostinano a
fornire a Pechino informazioni tendenziose sulla riformabilità e le potenzialità
progressive dell’UE (che invece noi sappiamo bene mancare), per fortuna però i
comunisti cinesi non sono ingenui e conoscono bene i loro interlocutori e
quindi sapranno calibrare l’approccio anche diplomatico da adottare.
2.
Il vostro Partito ha più volte visitato la Cina popolare. Pensate che il PCC
stia, effettivamente, edificando una società socialista? In sintesi in che cosa
consiste il “socialismo con caratteristiche cinesi”, che coniuga la teoria
marxista con la tradizione filosofica confuciana?
Non
c’è dubbio che l’orizzonte sia la costruzione del socialismo e già oggi vi sono
dei segnali incoraggianti, in primis la lotta contro la povertà. Ovviamente se
– come fanno alcuni partiti comunisti europei e altri estremisti di sinistra
sconnessi dalla realtà – ci immaginiamo il socialismo come qualcosa di romanticamente
stereotipato oltre che dogmaticamente libresco, rimarremo delusi: la Cina è un
paese reale, gigantesco che deve affrontare numerose contraddizioni sia esterne
sia interne e che, con modestia, si ritiene ancora a uno stadio iniziale
dell’edificazione socialista. Il controllo pubblico sull’economia e la
pianificazione quinquennale restano e la presenza del Partito Comunista come
forza guida del processo politico è a dir poco capillare anche nelle aziende
private, e in generale in tutto il Paese vige una sorta di duopolio di potere
dove accanto ad esempio al rettore di un’università o al presidente del
consiglio d’amministrazione di un’azienda vi è sempre il segretario politico
della cellula del PCC con incarichi precisi affinché anche il settore privato
dell’economia risponda a un obiettivo utile alla collettività. In sostanza il
mercato viene indirizzato dallo Stato in funzione dei bisogni sociali e, non va
sottovalutato, della sovranità nazionale così che il capitale privato estero
non possa mai assumere il controllo strategico. In Cina, insomma, la politica
comanda veramente sul mercato, mentre da noi è l’esatto opposto! Questo
permette uno sviluppo più armonico delle forze produttive, rispetto a quanto è
immaginabile in ambito capitalistico. Vi è inoltre un continuo riferimento al
marxismo e, accanto alle indicazioni di linea del presidente Xi Jinping,
costantemente ripetute, non mancano nemmeno le citazioni di Mao, soprattutto
quelle relative al “servire il popolo”.
3.
“Donald Trump Vs Joe Biden”, Joseph Stalin avrebbe detto “entrambe le scelte
sono peggiori”, nonostante ciò questi due leader rappresentano differenti
fazioni del capitalismo parassitario anglo-statunitense. In questi giorni avete
avuto modo di confrontarvi con esponenti di spicco del governo socialista
cinese, in che modo i comunisti inquadrano la dicotomia Trump/Biden
differenziandosi dalla disamina “parziale” della sinistra eurocentrica?
Premesso
che i marxisti cinesi tendono ad avere una visione globale dello sviluppo di un
Paese, la dicotomia Trump/Biden non è stata oggetto delle mie discussioni con i
compagni cinesi. Posso però dire di aver avuto un colloquio con i vertici della
Scuola quadri del Comitato Centrale del PCC che già ci avevano fatto visita in
Svizzera pochi mesi fa e vi è consapevolezza che il sistema liberale, ormai
adottato in toto anche dalla sinistra eurocentrica, non andrà preso in
considerazione dai comunisti cinesi, i quali intendono costruire un diverso
tipo di democrazia, ovviamente socialista e non liberale: non si facciano
quindi illusioni i riformisti quando sentono dire che i cinesi intendono
approfondire le riforme, così come non si disperino i marxisti-leninisti: il
PCC resta comunista, la modernizzazione del marxismo è un elemento chiave di
cui tutta la società discute e ogni apertura al capitale è controllata e
inserita in una strategia di sviluppo in cui lo Stato e il Partito possono
sempre eventualmente correggere il tiro.
4.
La notizia della scomparsa di Papa Francesco vi è giunta durante il vostro
soggiorno in Cina. In che modo il PCC valuta l’operato del defunto pontefice?
Non
abbiamo discusso della figura del precedente pontefice con i compagni del PCC e
la notizia della sua scomparsa non è stata commentata. Posso esprimere quindi
solo la mia posizione: il gesuita e peronista Jorge Bergoglio ha avuto il
merito di parlare apertamente del rischio di terza guerra mondiale, ha
denunciato la NATO che “abbaia” alle porte della Russia e ha invitato il regime
ucraino a negoziare. Non è cosa da poco per la posizione politica che il papa
ricopre: non ha fatto un generico appello pacifista, Francesco ha posto la
questione della pace in un’ottica di fatto anti-imperialista e a ciò come
marxisti, e non come rozzi anti-clericali, va dato il giusto riconoscimento.
Peccato che Bergoglio non abbia fatto in tempo a siglare quello che poteva
essere uno storico accordo con l’Associazione cattolica patriottica cinese,
risolvendo così le incomprensioni fra Vaticano e la Repubblica Popolare Cinese.
5.
La sinistra eurocentrica, accodandosi alla disinformazione neocons, considera
la Cina un paese imperialista. Seguendo la vostra disamina, quali sono le
ragioni strutturali che hanno trasformato la “sinistra” socialdemocratica in,
per dirla con l’analista strategico Jean Bricmont, “l’estrema sinistra
dell’estrema destra”?
Quando a sinistra si perde l’aderenza alla categoria dell’imperialismo poi, a cascata, si perde tutto. La sinistra europea in gran parte non pone più infatti la lotta anti-imperialista al centro, non riconosce l’importanza della rivoluzione anti-coloniale e quindi non coglie che la contraddizione di classe reale di questa fase storica è quella fra l’imperialismo atlantico che ha retto finora il modello unipolare da un lato, e il multipolarismo che poggia sull’integrazione eurasiatica e guida sino-russa dall’altro. Se non si coglie la contraddizione primaria della fase storica nella quale operiamo, poi si sbaglia tutto: sia finendo in un riformismo ormai piegato a un eurocentrismo liberale, sia fossilizzandosi in un massimalismo quasi solo retorico, autoreferenziale e gruppettaro, di chi vede solo la lotta di classe all’interno della fabbrica e non coglie la globalità dello scontro che deriva invece proprio dalla politica internazionale. Anche ampie fette della sinistra massimalista europea, insomma, pur nascondendosi in una retorica rivoluzionaria si sono ridotte a fare un’opposizione sterile, abbandonando di fatto la prospettiva storica di incidere nella realtà e quindi di porsi nell’ottica di trasformare davvero la società. Al contrario esse hanno interiorizzato categorie culturali liberali, mentre proprio l’esperienza cinese insegna quanto l’indipendenza ideologica risulti fondamentale.